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INTRODUZIONE – STORIA DI CHI, STORIA DI CHE COSA



1. CENTRO E PERIFERIA

La storia linguistica italiana si caratterizza per un costante rapporto tra il centro (la Toscana) e la periferia. Nella sua espansione, il toscano ha incontrato le parlate locali. Il confronto non si è risolto quasi mai in una imposizione autoritaria: vi è stato piuttosto un libero consenso delle altre regioni.

La situazione dell’Italia è anomala: come osservava con imbarazzo Manzoni, l’Italia era l’unica nazione in cui la capitale politica (Roma) era destinata a non coincidere con la capitale linguistica (Firenze).

I dialetti sono da considerare sempre nel rapporto con l’italiano: ma per il periodo dalle origini al 1400, non ha senso parlare di dialetti. Se ne parlerà solo dopo l’affermazione della lingua. Quindi per i secoli XIII-XV si parla di “volgari italiani”.

2. I FORESTIERISMI: LE LINGUE NON SONO ISOLATE

Sono le lingue di maggiore prestigio a influenzare le altre, esercitando un’azione che si manifesta nei “prestiti”. Il rapporto con una lingua diversa produce anche i “calchi”, che possono essere di due tipi: il primo è il “calco traduzione”, quando si traduce alla lettera una parola straniera (es: skyscaper = grattacielo); il secondo è il calco semantico, quando una parola italiana assume un nuovo significato traendolo da una parola straniera, come accaduto per “autorizzare, che un tempo significava “rendere autorevole”.

I “prestiti di necessità” si hanno quando la parola giunge assieme ad un referente nuovo, privo di nome nella lingua che lo riceve (es: caffè, patata, canoa).

I “prestiti di lusso”, invece, potrebbero essere evitati perché la lingua possiede già un’alternativa alla parola forestiera.

Tutta la terminologia dell’informatica è fittamente intessuta di parole inglesi, prestiti o calchi, perché tutta la tecnologia dell’informatica è stata sviluppata lontano dall’Italia: è quindi naturale che il relativo linguaggio settoriale sia di importazione.

Tra le lingue con cui l’italiano è stato maggiormente in relazione, al primo posto stanno quelle europee, prima il provenzale e il francese, poi lo spagnolo e l’inglese. Ma bisogna anche tenere conto dei contatti con il latino e il greco, che forniscono prestiti di matrice colta.

Tra le lingue moderne, il francese fin dalle origini ha avuto maggiori rapporti con l’italiano e gli ha dato il più alto numero di parole, con influenza maggiore fra ‘700 e ‘800. All’ inizio dell’800 però il Purismo reagisce contro i gallicismi e contro l’’infranciosamento’ dell’italiano.

Il periodo della più forte influenza spagnola va dalla seconda metà del ‘500 alla fine del ‘600. Lo spagnolo era allora la lingua di una grande potenza militare presente nella penisola.

Il periodo di forte penetrazione degli anglismi comincia nell’800 e raggiunge il culmine nella nostra epoca. Il tedesco invece è stato molto meno importante. Fondamentale invece nel Medioevo il rapporto con l’arabo. Voci arabe ricorrono nel lessico della marineria, del commercio, nella medicina, nella matematica (zero, tariffa, sciroppo), e sono arabi molti nomi di stelle.

3. GLI SCRITTORI CHE CONTANO

E’ sbagliato mettere in secondo piano la lingua comune e d’uso, legata alla comunicazione quotidiana. Il linguaggio letterario ha influito spesso in maniera determinante sulla lingua italiana comune. Sono stati gli scrittori a fornire gli elementi sui quali grammatici e teorici hanno poi stabilito la “norma”.

4. IL MISTILINGUISMO

Il parlante o scrivente italiano si è trovato molto spesso al centro di una serie di campi di forza divergenti: è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della letteratura, è stato condizionato dal suo dialetto d’origine. Tale ambiente era favorevole allo svilupparsi di fenomeni di lingua mista. La contaminazione che ne deriva può essere definita con termine tecnico come “mistilinguismo”, e poteva manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente, per deliberata scelta stilistica.

5. NOTAI E MERCANTI DEL MEDIOEVO

Il notaio è senz’altro fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti del volgare sono stati scritti da notai, e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del latino.

Inoltre, i notai sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana.

Il mercante medievale era certo meno istruito ma non gli mancava la conoscenza delle lingue straniere. Non sapeva il latino, ma leggeva, per proprio divertimento. Il suo rapporto con la scrittura era invece più sostanziale, aveva a che fare con la sua professione.

Un libro di conti del 1211 è la prima testimonianza di volgare fiorentino.

Il mercante utilizzò altre forme di scrittura, oltre alle lettere missive: i vademecum, in cui si trovano in maniera disorganica cose diverse; i libri di famiglia, quaderni in cui uno o più membri della famiglia annotavano avvenimenti familiari e cittadini, memorie, etc.

Nel ‘500 continuò infine la tradizione delle narrazioni di viaggi. In questi scritti il linguista può trovare le prime attestazioni di parole esotiche poi entrate stabilmente nell’italiano.

6. SCIENZIATI E TECNICI

Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino. La base delle conoscenze sulla natura, del resto, era costituita dagli autori classici come Aristotele e Plinio. Ci volle tempo perché il volgare potesse competere col latino strappandogli il monopolio della cultura.

Dante ebbe la lungimiranza di antivedere una simile trasformazione, e scrisse in volgare il Convivio, opera di filosofia e poesia. Ma fu Galileo Galilei il protagonista della svolta che promosse al più alto livello scientifico l’uso del volgare toscano.

Il linguaggio scientifico moderno ha accentuato i caratteri specifici che lo distinguono dalla lingua comune, oltre che da quella letteraria, ed è quindi fortemente codificato, rivolto a specialisti. Esso risulta “economico” proprio grazie alla concentrazione di parole specialistiche. Oggi, molto spesso chi scrive saggi scientifici, usa l’inglese, ormai lingua internazionale come un tempo il latino.

Se questa tendenza dovesse estendersi, andremmo purtroppo incontro a una progressiva perdita del linguaggio scientifico italiano.

7. PER FORZA DI REGOLE: I GRAMMATICI

La prima breve grammatica italiana che si conosca è la cosiddetta Grammatichetta vaticana, di Leon Battista Alberti, composta nel ‘400. La prima grammatica a stampa risale all’inizio del secolo successivo: si tratta delle Regole grammaticali della volgar lingua di Giovanni Francesco Fortunio.

Pochi anni dopo, nel 1525, uscirono le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo: nella terza ed ultima parte si trova una vera e propria grammatica dell’italiano.

Le norme fissate dai grammatici del ‘500 erano ricavate dagli scrittori che avevano reso grande la lingua: Dante, Petrarca e Boccaccio.

Lo sforzo di razionalizzazione grammaticale ebbe come effetto una maggiore omogeneità nell’uso da parte degli scriventi. A partire dal ‘700, la grammatica, in forma di ordinato manuale, divenne uno strumento fondamentale della pedagogia scolastica.

8. L’AUTORITA’ DELLE PAROLE: DIZIONARI E ACCADEMIE

Accanto alle grammatiche, l’altro grande presidio della norma linguistica è rappresentato dai dizionari. La concezione moderna di un vocabolario aperto alle innovazioni è molto diversa da quella che fu propria della più antica produzione lessicografica italiana, la quale, invece, ebbe l’obiettivo la definizione di un corpus chiuso di parole.

I più antichi vocabolari a stampa furono realizzati a Venezia.

La Crusca pubblicò nel 1612 un vocabolario molto più ampio di tutti quelli realizzati fino ad allora e lo presentò con un’autorevolezza tale da farlo diventare il termine di confronto obbligatorio in qualunque discussione sulla lingua.

9. LA POLITICA LINGUISTICA

La lingua toscana non deve la sua fortuna all’imposizione di un potere politico accentratore. La letteratura e la cultura sono stati i canali più importanti per la diffusione dell’italiano.

In Toscana, la lingua parlata era vicina a quella scritta e letteraria, e si aveva quindi un’omogeneità altrove impossibile. E’ naturale, quindi, che in Toscana il potere politico fosse disponibile ala promozione della lingua volgare.

Si ebbe una significativa promozione del toscano alla corte medicea, nel ‘400, e poi nel ‘500 sotto Cosimo I.

Il latino deteneva un primato quasi assoluto, in quanto lingue del diritto e della giurisprudenza. Eppure il volgare, già nel ‘400, fece la sua comparsa in alcune cancellerie signorili. E’ nella cancelleria che si forma la lingua che usiamo definire come “comune”, coinè.

Per uno stato, la scelta di una lingua ufficiale può significare una scelta di campo di grande portata storica. In Piemonte, durante il periodo napoleonico, fu introdotto il francese al posto dell’italiano: la francesizzazione si interruppe solo per la caduta dell’Impero.

Anche i dialetti esprimono una diversità regionale. Nel clima che portò all’Unità d’Italia, si formarono movimenti di opinione che avversarono i dialetti. Lo stesso Manzoni non fu loro favorevole. Tali posizioni antidialettali vengono definite “giacobinismi linguistici” (il linguista Ascoli faceva notare che lingua e dialetto possono convivere pacificamente).

Uno degli strumenti della politica linguistica è la scuola. Fino al ‘700, però, la scuola superiore fu in lingua latina. Il volgare non era insegnato, almeno ufficialmente.

Con le riforme del ‘700 il toscano entrò nella scuola superiore e nell’Università all’inizio con una posizione assai modesta.

10. EDITORI E TIPOGRAFIA

Nel ‘400 Venezia divenne la capitale della stampa. L’innovazione della stampa influenzò direttamente l’evoluzione della lingua, produsse una regolarizzazione sempre maggiore della scrittura: la tipografia italiana favorì nel ‘500 la diffusione di una norma omogenea, realizzando una maggiore uniformità linguistica dei testi, sottraendoli alle oscillazioni tipiche della coinè quattrocentesca.

Nel primo secolo della stampa, la produzione in latino ebbe di gran lunga il primo posto.

Il primo libro in volgare italiano oggi conosciuto non è un grande classico, ma un testo popolare devoto: un’edizione dei Fioretti di San Francesco (Roma, 1469).

Nel corso del ‘500 l’editoria raggiunse una considerevole omogeneità linguistica e acquistò sempre maggiore importanza la figura del “correttore tipografico”. Attraverso la stampa si arrivò così ad una progressiva regolarizzazione della grafia e dell’uso della punteggiatura. Si pensi che l’apostrofo fu introdotto da Bembo in occasione della stampa, nel 1501, delle Cose volgari di Petrarca.

11. DALLA STAMPA AI MODERNI “MASS-MEDIA”

Nel ‘700 acquistò una funzione particolare il giornale, rivolto allo stesso pubblico colto che acquistava i libri. E’ con l’800, tuttavia, che si diffusero giornali popolari e quotidiani rivolti a un pubblico più largo, favoriti dalla crescita dell’analfabetismo e dalla maggiore scolarizzazione.

Il giornale è testimone di molti neologismi e forestierismi. Non sempre i neologismi che compaiono sui giornali mettono radici nella lingua; a volte scompaiono in breve tempo.

La radio era già diventata un canale per raggiungere masse popolari negli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Ma l’avvento della televisione fu un’occasione unica, per alcuni, di ascoltare una voce che parlava in lingua italiana, portando nelle campagne, in zone arretrate e legate alla più arcaica cultura rurale, un’immagine del mondo esterno.

12. LINGUA SCRITTA E LINGUA PARLATA

La lingua è per sua natura caratterizzata da varietà, e in questa varietà si esprime la creatività del parlante, determinata dal livello e dalla situazione in cui si svolge la comunicazione.

Una prima grande differenza va stabilita fra la lingua scritta e la lingua parlata.

Nell’oralità ci sono molti elementi che entrano nella comunicazione, assenti della scrittura: il gesto, l’espressione, il tono della voce, etc. Parola e azione si intrecciano. Inoltre la scrittura ha una maggiore “durata” del parlato, permette la correzione, il ripensamento, il succedersi di stesure diverse, fino al raggiungimento di un risultato soddisfacente e ordinato.

Lo storico della lingua si occupa generalmente di testi scritti. L’analisi di testi orali può essere messa in atto solo a partire dalla registrazione della voce su disco o nastro.

Dal ‘900, a volte, nelle scritture si avverte l’oralità, con differenti gradazioni. Un caso particolare è il “testo teatrale”, un “parlato recitato”. Il parlato viene anche introdotto nella narrativa, nelle novelle con i dialoghi.

13. L’ITALIANO DEL POPOLO

Nella tradizione italiana di riflessione sulla lingua, il ruolo del popolo è stato materia controversa. Pietro Bembo era fautore di un ideale letterario aristocratico e non riconosceva diritti alla parlata popolare, dove per popolo si intende quello toscano.

Ma anche una volta riconosciuta la parentela tra la lingua dei grandi scrittori del ‘300 (Dante, Petrarca e Boccaccio) e quella parlata dal popolo toscano, si trattava di stabilire quale fosse il principio di autorità: si trattava di scegliere tra la tradizione scritta e la vitalità della lingua viva.

I linguisti hanno scoperto l’esistenza del popolo grazie allo sviluppo delle scienze folcloristiche, della dialettologia e dello studio del periodo storico successivo all’Unità d’Italia. Si potè così osservare che il popolo post-unitario era arrivato ad utilizzare una modesta lingua “italiana”, piena di elementi dialettali ed errori.

Batoli Langeli, paleografo, afferma che “l’italiano popolare è un modo di scrivere, non di parlare”. Inizialmente, i documenti di italiano popolare vennero ricercati nei secoli XIX e XX.

Una serie di documenti dimostra come anche tra gli appartenenti ai ceti sociali più bassi, nelle grandi città, la capacità di leggere e scrivere non fosse totalmente assente, anche prima dell’800. Sempre più spesso escono dagli archivi testi risalenti al periodo tra il ‘500 e il ‘700, redatti in “italiano popolare”: si tratta di scritture di semicolti in un italiano scorretto, saturo di dialettismi, ma comunque diverso dal mero dialetto.

La storia dei dialetti italiani è strettamente legata a quella dell’italiano. Il processo è stato duplice: i dialetti si sono via via avvicinati alla lingua, mentre l’italiano ha acquisito elementi provenienti dai dialetti.

14. LA LINGUA COME VARIETA’

L’italiano popolare è l’italiano di chi non riesce a staccarsi dal dialetto e per conseguenza contamina i codici. I linguisti parlano di “varietà diastratiche” per indicare differenze che si riscontrano nell’uso dei diversi strati sociali.

A partire dal ‘500, l’italiano letterario divenne lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società. Da allora in poi, quanto più modesto è il livello culturale dello scrivente, tanto più emergono vistosi gli elementi legati al dialetto.

Le varietà diatoniche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche.

L’italiano parlato nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione a regione. Le differenze riguardano prima di tutto il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e lessicale. I parlanti settentrionali, ad esempio, non distinguono tra le “e/o” rispettivamente aperte e chiuse (pèsca, pésca). Toscani e romani avvertono l’apertura e la chiusura delle “e/o” come rilevante.

Le differenze riguardano anche il livello lessicale e sintattico: le forme “tengo fame” per “ho fame” o “il pesce vuol cotto bene” sono chiaro segno di un italiano regionale di tipo meridionale.

Diafasico è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della comunicazione. Seguendo un’ideale scala discendente, potremmo parlare di livello molto elevato o aulico, colto, formale, medio, colloquiale, popolare, familiare, basso, etc.

E’ interessante notare che molte tendenze innovative proprie dell’italiano di oggi si manifestano prima di tutto ad un livello diafasico medio-basso: è il caso del pronome “gli” al posto di “a lei”, dell’uso del “ci” davanti ad “avere” (c’hai), del che polivalente (“questo è il locale che si balla tutta la notte”), della dislocazione a sinistra (Carlo l’ho visto), dell’uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà o dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti (se sapevo, venivo prima; credo che Mario non viene).


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