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CAPITOLO SECONDO – IL DUECENTO



1. IL LINGUAGGIO POETICO DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI

La prima scuola poetica italiana di cui si abbiano notizie certe e sistematiche fiorì all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale, per questo detta “scuola siciliana”.

Altre due letterature romanze si erano già affermate: quella francese in lingua d’oil e quella provenzale in lingua d’oc. Quest’ultima in particolare esercitava un grande fascino: era, per eccellenza, la lingua della poesia, soprattutto quella amorosa.

I poeti siciliani imitarono la poesia provenzale: ma sostituirono la lingua forestiera con un volgare italiano, quello siciliano. Anche Dante ebbe un giudizio positivo di questa scuola.

Alcuni dei poeti “siciliani” non sono affatto siciliani: Percivalle Doria è ligure, ad esempio, e ciò dimostra che la scelta del siciliano fu dotata di valore formale, e infatti il volgare della poesia siciliana è altamente formalizzato, raffinato. Vi entrano in gran numero termini provenzali, o arieggianti la lingua provenzale, come le forme in agio (coragio) e anza (amanza, speranza…).

Il corpus della poesia delle nostre origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani. Nel Medioevo copiare non era operazione neutrale. I copisti toscani intervennero appunto sulla forma linguistica della poesia siciliana con una vera e propria opera di traduzione.

La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portò con sé anche la distruzione fisica dei manoscritti di origine siciliana o meridionale. Giovanni Maria Barbieri, studioso della lingua provenzale, aveva avuto per le mani un codice (Il libro siciliano) contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente diversa da quella comunemente nota: “Alegru cori, plenu / Di tutta beninanza…”.

La sicilianità è vistosa: si notino le vocali finali –u e –i al posto delle –o ed –e toscane, la –u al posto della –o in inamuranza, le –i al posto di –e toscana, in posizione tonica. Benché sostanzialmente fedele all’originale, amo non è un tratto siciliano. Per avere un’idea dell’intensità del processo di toscanizzazione, metteremo ora a confronto la trascrizione in forma toscanizzata con quella in forma siciliana della canzone S’eo trovasse pietanza.

Trascrizione di Barbieri: “La virtuti ch’ill’àvi / D’alcirm’e guariri”.

Codice Vaticano (toscanizzato): “La vertute ch’il àve /D’ancider me e guerire”.

Il confronto mette in evidenza la sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani. Ma una traccia di questa sostituzione rimane anche nelle rime imperfette delle versioni toscanizzate (conduce-croce / ora-pintura), le quali diventano perfette solo se riportate alla lingua originale (conduci-cruci / ura-pintura).

La lezione della poesia siciliana fu decisiva per la nostra tradizione lirica. Non solo si stabilizzò la rima siciliana, ma divennero normali in poesia i condizionali meridionali in –ia (il tipo crederia, contro il toscano crederei).

2. DOCUMENTI POETICI CENTRO-SETTENTRIONALI

Con la morte di Federico II (1250), venne meno la poesia siciliana. La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti.

In Italia settentrionale fiorì nel ‘200 una letteratura in volgare molto diversa da quella sviluppatasi nel raffinatissimo ambiente della corte di Federico II.

La lingua di questi scrittori è fortemente settentrionale, non essendo ancora in nessun modo presente l’imitazione dei modelli letterari toscani.

L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quella occidentale, fra Pisa e Lucca. In quest’area si sviluppò la cosiddetta poesia siculo-toscana.

Firenze si affermò solo nella seconda metà del ‘200: tra il 1260 e il 1280. A Firenze vi erano diversi rimatori, il loro stile rifletteva quello dei poeti siciliani. In essi si ritrovano molti gallicismi e sicilianismi. Tra i sicilianismi si possono notare le –i finali al posto di –e, in sostantivi singolari come calori, valori, siri, in verbi alla terza persona (ardi per arde).

In Toscana si stava in sostanza immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia.

E’ noto che Dante attribuì a Guinizzelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore. Tuttavia, permane una sostanziale continuità tra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista. Permangono i gallicismi (rivera per fiume), i provenzalismi (sclarisce), i sicilianismi (saccio, aggio).

In Cavalcanti troviamo le forme suffissali in –anza, i meridionalismi di origine siciliana (feruta, saccio), le rime siciliane del tipo noi-altrui, e i consueti provenzalismi. Stessa sorte per le prime esperienze poetiche di Dante, che però amplia il lessico della poesia.

3. DANTE, PRIMO TEORICO DEL VOLGARE

Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Nel Convivio, il volgare viene tra l’altro celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici.

Nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte, nel De vulgari eloquentia invece la superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza.

Il De vulgari eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare. Non ebbe una sorte molto felice.

Dante muove dalle origini prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature, l’unico ad essere dotato di linguaggio è l’uomo. L’origine del linguaggio e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: nodo centrale è l’episodio della Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro varietà, incomincia proprio qui: loro caratteristica è il mutare nello spazio, da luogo a luogo, e nel tempo.

La grammatica delle lingue letterarie, come quella del greco e del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi.

Per arrivare a definire i caratteri del volgare letterario, Dante procede concentrando la sua attenzione su spazi geografici via via più ristretti La sua attenzione di concentra sull’Europa, e procedendo dal generale al particolare e avendo come obiettivo una trattazione approfondita dell’area italiana, si avvicina al suo scopo, venendo a trattare del gruppo linguistico costituito da francese, provenzale e italiano.

Si restringe quindi finalmente alla sola area italiana. Dante esamina queste parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre (e anche aulico, curiale e cardinale). L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre.

Tra le più severe condanne c’è quella per il toscano e il fiorentino. Migliori degli altri risultano il siciliano e il bolognese. Il discorso si sposta poi dalla lingua alla letteratura: Dante, sta cercando una lingua ideale, priva di tratti locali e popolari. Le realizzazioni di questa lingua vengono identificate nei modelli di stile a cui gli stilnovisti e Dante stesso guardavano con maggior ammirazione.

4. LA FORMAZIONE DELLA PROSA VOLGARE

Confrontato con l’alto sviluppo qualitativo della poesia, la prosa duecentesca appare in ritardo. Il latino, nel ‘200, detiene ancora il primato assoluto nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di cultura.

A volte si tratta di un latino che assume forme domestiche, in cui affiorano tracce di un espressivo parlato in lingua volgare. Inoltre il volgare è necessariamente influenzato dal latino. Molto spesso il verbo viene posto in clausola, e anche la sequenza determinante-determinato viene ripresa dal latino.

Se alcuni italiani usavano il francese addirittura per scrivere le loro opere, riconoscendogli il pregio di essere la più piacevole delle lingue, niente di strano che il francese influenzasse i volgarizzatori.

Nel 1200, alle due lingue di comune impiego nella prosa, cioè il latino e il francese, non si contrappone ancora un tipo unico di volgare, e predomina anzi una sostanziale varietà. Non esiste una prosa-modello che in questo secolo si imponga su quella delle altre regioni. Di fatto, però, il ruolo della Toscana stava delineandosi.


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