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CAPITOLO TERZO – IL TRECENTO



1. DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO

La ricchezza tematica e letteraria della Commedia favorì la promozione del volgare, dimostrando che la nuova lingua aveva potenzialità illimitate. Ecco perché il successo del poema di Dante e il successo della lingua italiana (toscana) già nel ‘300 andarono di pari passo. La Commedia è opera compiuta in esilio nell’Italia settentrionale.

Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro, che sta alla base della crescita rapida della fortuna accordata ai modelli letterari del volgare.

Il toscano iniziò così la sua espansione destinata a completarsi nel giro di alcuni secoli. Il processo fu reso irreversibile dal Canzoniere di Petrarca e dal Decameron di Boccaccio. Senza questi tre autori, probabilmente la storia linguistica italiana sarebbe stata diversa, anche se il fiorentino era una lingua dotata di particolari potenzialità: vivacissima era la società fiorentina, e la sua lingua occupava una posizione mediana tra le parlate italiane. Inoltre era abbastanza simile al latino.

2. VARIETA’ LINGUISTICA DELLA “COMMEDIA”

Bruno Migliorini, nella sua “Storia della lingua italiana”, ha definito Dante il “padre” del nostro idioma nazionale. Tullio de Martino ha osservato che quando Dante cominciò a scrivere la “Commedia”, il vocabolario fondamentale dell’italiano era già costituito al 60%, e che il poema di Dante fece proprio questo patrimonio e con il suo sigillo lo trasmise nei secoli, tanto che alla fine del ‘300 il vocabolario fondamentale dell’italiano era configurato e completo al 90%.

Il latinismo viene a Dante da canali diversi: la letteratura classica, le Sacre Scritture, la filosofia tomistica e la scienza medievale. E’ d’obbligo, quando si parla del latinismo nella lingua di Dante, citare il canto VI del Paradiso, con il lungo discorso di Giustiniano, in cui molti termini sono costruiti con l’ausilio della lingua classica (es: Cirro Negletto sta per capigliatura arruffata, da cui il nome di Cincinnato; il verbo labi, modulo poeticamente illustre, che viene da Orazio, Ovidio e Virgilio; usa “cenit”, lo zenit, parola ricavata dall’arabo, etc.).

Il plurilinguismo è una delle categoria che sono state utilizzate per definire la lingua poetica di Dante. Non solo i latinismi, ma anche i termini forestieri, plebei, le parole toscane e anche alcune non toscane. Tale varietà nelle scelte lessicali deriva da una varietà del tono. Si passa dunque dal livello basso e dal turpiloquio (il cul che fa trombetta), al livello più alto, al sublime teologico.

La Commedia, però, nel suo complesso, si presenta come opera fiorentina, che sembra contraddire le tesi del De vulgari eloquentia. Dante si sente libero di fronte ai tratti morfologici del fiorentino del suo tempo, quando ragioni di gusto personale lo richiedono.

Più in generale, si può parlare di una polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda l’alternanza di forme dittongate e non dittongate (core/cuore; foco/fuoco; bono/buono), la presenza di –i o –e in protonia (ad es. virtù prevale su vertù), o ancora di –a in protonia (danari), le forme del condizionale (il tipo siciliano in –ia e quello toscano in –ei: vorria e vorrei), etc.

3. IL LINGUAGGIO LIRICO DI PETRARCA

La caratteristica dominante del linguaggio poetico di Petrarca è la sua selettività, che esclude molte parole usate da Dante nella Commedia, inadatte al genere lirico. La parte dell’opera petrarchesca scritta in volgare è estremamente ridotta rispetto a quella latina. Il volgare non è qui la lingua “naturale”, ma la lingua di un raffinato gioco poetico; la lingua naturale dell’uomo colto è proprio il latino con cui infatti postilla le poesie volgari, annotando i propri brevi autogiudizi.

Petrarca fa ampio uso di una dispositivo che muta l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato (alla latina). Inoltre ricorrono chiasmi, antitesi, enjambements, anafore, allitterazioni, e si ritrovano binomi di aggettivi (“Solo e pensoso”), spesso di significato analogo (“Tardi e lenti”).

Petrarca poi scrive ancora in maniera unita sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi. Manca l’apostrofo, che fu introdotto solo all’inizio del ‘500. Il sistema di segni di interpunzione si riduce a pochi elementi. Sono presenti anche molti latinismi grafici, come le “b” etimologiche in huomo, humano e honore; le “x” (extremi), i nessi –tj- (gratia).

4. LA PROSA DI BOCCACCIO

L’importanza del Decameron per la prosa italiana è accentuata dal fatto che la prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda.

Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni narrative molto variate, in contesti sociali diversi. Tutte le classi si muovono sulla scena, dai regnanti alle prostitute, così come compaiono quadri geografici e ambienti molto differenti. Lo scrittore non ha rinunciato affatto, nella sua ricerca di realismo, a una caratterizzazione anche linguistica che sapesse cogliere queste diversità.

Le novelle mostrano spesso la vivacità del dialogo, con scambi di battute in cui entrano elementi popolari e anacoluti, oltre che una complessa ipotassi. E’ uno stile magniloquente, in cui le subordinate si accumulano in gran numero. Furono imitati i nessi largamente usati da Boccaccio per regolare il funzionamento e la successione del periodo, con i frequenti “adunque”, “allora” e “avvenne che”.

La prosa di Boccaccio, nelle sue forme normali, non mimetiche, è fiorentina di livello medio-alto. Nella grafia di Boccaccio, come in quella di Petrarca, si notano latinismi, come le “x” (exempli), il nesso –ct- (decto), la forma advenuto per “avvenuto”, come le “h” etimologiche in herba, habito. L’affricata dentale è resa dalla ç, ma anche dalla z (scioccheça, sciocchezza).

Boccaccio è autore anche di uno dei più antichi testi in volgare napoletano, un’Epistola databile al 1339. Si presenta in una lingua napoletana marcata in senso comico, ricostruita così come poteva farlo un non napoletano che volesse imitare a orecchio il parlato vivo del tempo. L’esperimento di Boccaccio è importante perché mostra un uso volontario di un volgare diverso dal proprio, identificato nelle sue caratteristiche fonetiche, lessicali e sintattiche.

5. I VOLGARIZZAMENTI

Questo tipo di libera traduzione continuò anche nel ‘300, in forme che si avvicinavano a veri e propri rifacimenti del testo originale (es: Le vite dei santi padri di Cavalca, i Fioretti di san Francesco).

Altri volgarizzamenti, sia da opere latine che da opere toscane, furono realizzati nelle varie lingue locali: ad esempio in siciliano, in napoletano, in ligure, etc. La prosa, molto più della poesia, manteneva in certi casi l’impronta della zona geografica, resistendo all’omologazione toscana.


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