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CAPITOLO QUARTO – IL QUATTROCENTO



1. LATINO E VOLGARE

Petrarca, nello scrivere latino, si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio, e misurava consapevolmente la differenza fra quei modelli e il latino medievale corrente ai suoi tempi. Dante per contro usava il latino moderno.

Il confronto con il latino degli autori canonici fu decisivo per la formazione di una mentalità grammaticale applicata in seguito anche alla stabilizzazione normativa dell’italiano. Il nuovo gusto classicistico orientò verso una concezione della lingua intesa quale frutto di imitazione dei grandi modelli letterari. In seguito quest’idea fu trasferita dal terreno degli studi classici a quello dell’italiano. Di fatto, però, la svolta umanistica che incominciò con Petrarca ebbe come conseguenza una crisi del volgare, lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti, mentre nell’uso pratico esso continuava a farsi strada.

Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati (1331-1406), che diffuse il suo stile latino elaborato sulla base dei modelli ciceroniani.

Il latino era preferito in quanto lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria. L’uso del volgare, secondo l’opinione di questi dotti, risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari.

Credere nel volgare era insomma come scommette su di un futuro incerto, laddove il latino rappresentava una certezza apparentemente indiscutibile.

2. MISCELE A BASE DI LATINO

La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura letteraria in cui latino e volgare entrarono in simbiosi: nel secolo dell’Umanesimo gli esperimenti di multilinguismo furono frequenti, ed esso aveva tracce di una contaminazione volontaria e studiata, non casuale.

Esistono due tipi di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco.

Con il termine macaronico di designa un linguaggio (e un genere poetico) comico nato a Padova alla fine del ‘400. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodia di parole dal volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latina, con forte tensione espressionistica tra le due componenti poste a coesistere, quasi anzi a cozzare violentemente fra loro. Una di queste componenti, quella dialettale, è bassa, corporea, plebea; l’altra latina è aulica.

Dal punto di vista dell’invenzione linguistica, il macaronico consiste nella formazione di parole miste. A una parola volgare può essere applicata una desinenza latina: cercabat per cercava (cercare più –abat imperfetto latino), ficavit per ficcò; in altri casi parole già esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del volgare, come casa, che in latino significa capanna; parole latine vengono legate in costrutti sintattici tipicamente volgari: propter non perdere tempus per “per non perdere tempo”.

Il risultato è un latino che sembra pieno di errori. Si noti però che l’errore non è dovuto ad imperizia. L’autore macaronico è anzi un pttimo latinista, che tuttavia gioca con gli idiomi dei classici. Si tratta dunque di una scelta volontaria dello scrittore, a scopo comico, realizzata mediante una tecnica che si può definire di abbassamento del tono.

La poesia macaronica (il cui nome deriva da un cibo, il macaone, cioè un tipo di gnocco: come si vede, si tratta di un’origine vistosamente corporea, parodia rispetto alla natura eterea della poesia).

Il polifilesco o pedantesco si trova sotto forma di linguaggio prosastico nell’Hypnerotomachia Poliphili (Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), un romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia.

La mescolanza fra latino e volgare non è certo una novità della predica quattrocentesca, ma viene direttamente ereditata dalla tradizione medievale. Il latino non solo serviva come punto di partenza, con il riferimento a qualche versetto della Bibbia, ma ricorreva sovente più volte nel corpo della predica stessa.

Il latinismo nel contesto di un documento volgare è spesso legato a una consuetudine. In una lettera, ad esempio, accade frequentemente che siano in latino le formule iniziali e finali, così come frequenti sono le formule correnti, così comuni che la loro latinità passa in pratica inavvertita agli occhi dei lettori del tempo: cum per con, maxime per massimamente, etc.

3. LEON BATTISTA ALBERTI E LA PRIMA GRAMMATICA

Mancava dunque un autore che manifestasse piena fiducia nell’italiano. Tanto più dunque risulta innovativa la posizione di Leon Battista Alberti. Egli iniziò il movimento definibile come “Umanesimo volgare”, elaborò un vero programma di promozione della nuova lingua.

L’Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini prima di tutto in questo: nel fatto che avevano scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale; anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare a una sua promozione a livello alto, da affidare ai dotti.

All’Alberti è attribuita anche un’altra eccezionale impresa: la realizzazione della prima grammatica della lingua italiana, prima grammatica umanistica di una lingua volgare moderna. Questa Grammatica della lingua toscana la si conosce anche come Grammatichetta vaticana. Una breve premessa anteposta al testo chiarisce il collegamento con le dispute umanistiche, polemizzando contro coloro i quali ritenevano che la lingua latina fosse propria solamente dei dotti. La Grammatichetta vaticana nasce da una sorta di sfida: dimostrare che anche il volgare ha una sua struttura grammaticale ordinata, come ce l’ha il latino.

Essa tuttavia non ebbe influenza, perché non circolò e non fu data alle stampe.

Caratteristica della grammatica dell’Alberti è l’attenzione prestata all’uso del toscano del tempo, verificabile fra l’altro in alcune indicazioni relative alla morfologia: così la scelta dell’articolo el anziché il, così la preferenza per l’imperfetto in –o.

La norma a cui si rifà la Grammatichetta sta dunque nell’uso, non negli autori antichi, per i quali non mostra alcuna propensione. Poiché la linea maestra della produzione grammaticale del secolo seguente è tutta incentrata sui modelli letterari, la piccola grammatica dell’Alberti si segnala per essere basata sull’uso vivo.

La promozione della lingua toscana da parte dell’Alberti culminò in una curiosa iniziativa, il Certame coronario del 1441. Egli organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare. La giuria, composta da umanisti, non assegnò tuttavia il premio, facendo in pratica fallire il Certame, che pur aveva avuto una certa risonanza.

4. L’UMANESIMO VOLGARE

A Firenze, nell’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe finalmente “un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano, politicamente voluta e sostenuta al più alto livello” (Tavoni). I protagonisti di questa svolta, anticipata da Alberti, furono oltre a Lorenzo De’ Medici, l’umanista Cristoforo Landino e il Poliziano.

Landino fu culture della poesia di Dante e di Petrarca, fino al punto di introdurre la lettura di questi autori persino nella cittadella universitaria.

Landino nega la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenga il “principato” della lingua.

Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni dei propri sonetti (1482-84), prospettando un mirabile sviluppo futuro del fiorentino, una crescita della sua maturità, parla, analogamente, di un “augumento al fiorentino imperio”. Lo sviluppo della lingua si lega dunque ora ad una concezione patriottica, viene inteso come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo.

Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisse con un forte apporto delle lingue latina e greca: la traduzione, dunque, aveva una funzione importante. Nel tradurre, diede spazio a voci toscane popolari.

Nel 1476, Federico, erede al trono di Napoli, aveva incontrato Lorenzo a Pisa, e in tale occasione i due avevano discusso di letteratura volgare a proposito degli autori che avevano poetato in lingua toscana. L’anno successivo Lorenzo inviava dunque a Federico la raccolta selezionata di quegli autori, unendovi l’elogio di quella lingua e di quella letteratura, in primo luogo di Dante e Petrarca (“lingua non povera e rozza ma abundante e pulitissima…”).

Con Lorenzo il Magnifico e con la sua esaltazione del fiorentino, che egli stesso e Landino riconoscevano comune a tutta l’Italia, per la prima volta la promozione del volgare e la rivendicazione delle sue possibilità si collegavano ad un preciso intervento culturale e letterario, non disgiunto da un disegno politico in senso lato.

La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino esige dunque che si presti particolare interesse alle realizzazioni poetiche di Lorenzo e del suo entourage. Il volgare viene assunto in questo caso a soggetto di un esercizio letterario colto, in un ambiente d’elite.

Nell’ambiente mediceo assistiamo alla prima trasposizione su di un piano colto di un genere popolare che godeva grande fortuna, quale era il cantare cavalleresco. Si trattava di una forma poetica in ottave che veniva portata sulle piazze da canterini, cantastorie professionisti, per l’intrattenimento di un pubblico medio-basso.

Il Morgante di Luigi Pulci (1432-1484) si inserisce in una generale tendenza al ricupero colto di forme popolari, che caratterizza in larga misura buona parte della letteratura del rinascimento mediceo.

Pulci scrisse al giovane Lorenzo una lettera in furbesco (si tratta del primo caso di uso del gergo nella nostra letteratura) e compilò un Vocabolista, raccolta lessicale ad uso privato, la quale può essere considerata una sorta di antecedente di un vocabolario italiano.

Un altro autore fiorentino, il Burchiello, è rimasto famoso per aver coltivato un genere di poesia comica fondata sul gioco di doppi sensi e sull’invenzione verbale fino ai limiti del non senso e dell’incomprensibilità.

5. L’INFLUENZA DELLA LETTERATURA RELIGIOSA

La letteratura religiosa è importante per la circolazione tra il popolo di modelli linguistici toscani o centrali. Nel ‘400 troviamo raccolte di laude (laudari) in uso presso molte comunità dell’Italia settentrionale.

Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare, e quindi erano un’altra occasione in cui, come nel caso delle laudi, gli incolti dialettofoni potevano incontrare una lingua più nobile e toscanizzata.

Anche la predicazione si rivolgeva al popolo, e quindi aveva bisogno del volgare. Il volgare della predicazione sarà stato in certi casi molto vicino al dialetto, o volgare locale, illustre. Nel ‘400, però, abbiamo già casi in cui la lingua toscana esercita anche in questo campo un prestigio al di là dei suoi naturali confini geografici. Tra i predicatori spicca la figura di San Bernardino da Siena. Egli usa una lingua semplice e colloquiale, un parlar “chiarozzo acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato”.

Diverso il caso di Savonarola, un non toscano, proveniente dall’Italia settentrionale, che approdò a Firenze, e vi dovette esercitare la sua missione, parlando ai cittadini dal pulpito. Egli fu quindi costretto ad una sorta di toscanizzazione.

Il fatto stesso che i predicatori si muovessero da luogo a luogo e facessero esperienza di un pubblico sempre diverso, li spingeva a raggiungere il possesso di un volgare che fosse in grado di comunicare al di là dei confini di una singola regione.

Probabilmente tale predicatore poteva adottare alcune parole proprie del posto in cui si trovava, ma doveva essere comunque in grado di depurare la propria lingua naturale, toscana o non toscana che fosse, degli elementi vernacolari, incomprensibili ad un pubblico diverso da quello della sue regione di origine.

6. LA LINGUA DI COINE’ E LE CANCELLERIE

La poesia volgare ebbe fin dall’inizio una maggiore uniformità rispetto alla prosa, tanto da formare molto presto una sorta di sistema omogeneo. La prosa invece risentì maggiormente di oscillazioni.

Si può parlare a questo proposito di una varietà di scriptae, lingue scritte attestate dai documenti dell’epoca, collocate in precisi spazi sociali e geografici. Ma nel ‘400, esse mostrano una tendenza al conguaglio, cioè all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali. Nel ‘400 dunque, le scriptae, tramite conguaglio, si evolvono verso forme di coinè, termine tecnico con cui si indica una lingua comune superdialettale.

La coinè del ‘400 consiste appunto in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte almeno dei tratti locali e raggiunge questo risultato accogliendo largamente latinismi e appoggiandosi anche al toscano.

Il crescente prestigio dell’Umanesimo non significò affatto mortificazione del volgare, ma anzi aumento della sua espansione e ramificazione. Proprio a partire dal ‘400 le manifestazioni scritte del volgare mostrano una differenza che può essere attribuita allo spessore sociolinguistico.

Una forte spinta in direzione della coinè la diede l’uso del volgare nelle cancellerie principesche, ad opera di funzionari, in genere notai.

Lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimaneva tuttavia ben marcato. E’ noto il caso di Boiardo, le cui lettere private sono ad un livello di formalizzazione e di toscanizzazione molto minore rispetto alle opere poetiche, in particolare rispetto alle liriche d’amore.

Nell’incertezza di un uso ancora non codificato da grammatiche e vocabolari, il latinismo era un punto d’appoggio sicuro e insostituibile.

7. FORTUNA DEL TOSCANO LETTERARIO

Il volgare toscano acquistò di fatto un prestigio crescente fin dalla seconda metà del ‘300, a partire dalla presenza fuori di Toscana di autori come Dante e Petrarca, i quali si mossero variamente nell’area settentrionale.

A parte una regione eccentrica e francesizzata come il Piemonte, a Milano l’apertura verso la letteratura toscana era stata sensibile, legata ad una precisa scelta. Filippo Maria Visconti, che leggeva Petrarca e Boccaccio, fece compilare intorno al 1440 un commento all’inferno dantesco, e fece commentare Petrarca dal Filelfo.

Diverse testimonianze dimostrano la simpatia con cui Ludovico il Moro guardava alla lingua fiorentina. Anche la tipografia milanese (come quella mantovana) aveva concesso spazio alle opere dei grandi trecentisti toscani.

Assieme a Firenze e a Milano, la città all’avanguardia nella stampa dei libri in volgare era Venezia. Fin dal 1470 dai torchi veneziani era uscito il Canzoniere di Petrarca, nel 1471 il Decameron. Ma la letteratura e la lingua volgare trovavano spazio anche nelle corti minori dell’Italia padana. Nell’ambiente emiliano, tra Reggio e Ferrara, ad esempio operava Boiardo (1441-1494).

A Mantova il mecenatismo dei Gonzaga si era esercitato nei confronti di autori come Leon Battista Alberti e Poliziano, che proprio qui compose nel 1480, per una festa di corte, l’Orfeo.

Matteo Maria Boiardo arrivò alla poesia in volgare dopo un’esperienza di poeta in lingua latina. Egli operò in una dimensione definibile dal punto di vista linguistico come “acronica”, nel senso che, volontariamente sradicato dal proprio terreno linguistico dialettale, assimilò librescamente il toscano.

Il suo punto di riferimento è il ‘300, in particolare la poesia di Petrarca, ma anche il volgare poetico precedente e il latino. Sono dunque frequenti i latinismi, che si riflettono anche sul vocalismo tonico, in cui ricorrono –i e –u al posto di –e e –o: semplice, firma, summo.

Un tratto toscano è l’anafonesi.

Interessante è il confronto tra la poesia lirica di Boiardo e il suo poema incompiuto, l’Orlando innamorato. Le due stampe presentano un colorito più dialettale, mentre il manoscritto è maggiormente toscanizzato.

Nel sud Italia, durante il periodo in cui si instaurò a Napoli la corte della dinastia aragonese (1442-1502), fiorì una poesia cortigiana di cui sono esponenti autori come Francesco Galeota, Joan Francesco Caracciolo, Pietro Jacopo de Jennaro.

Alcuni tratti linguistici di questi poeti li fanno distinguere rispetto al toscano: l’oscillazione tra forme anafonetiche fiorentine e forme senza anaforesi, oscillazione fra i possessivi toa, soa e i toscani tua e sua. Specificatamente meridionali sono fra l’altro le forme come iorno per giorno e iace per giace.

La generazione successiva dei poeti meridionali, che ha come rappresentanti Cariteo e Sannazaro, invece, si distacca maggiormente dai tratti linguistici locali. Quanto al Sannazaro, di particolare importanza è la sua Arcadia.

Nell’Arcadia ci sono parti in prosa, che collegano le varie egloghe poetiche. Questa prosa è particolarmente interessante perché è la prima “prosa d’arte composta fuor di Toscana, un una lingua appresa ex novo” (Folena) ed è anche “il primo esempio di revisione linguistica in senso toscaneggiante ad opera di uno scrittore linguisticamente periferico” (Serianni).


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