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CAPITOLO QUINTO – IL CINQUECENTO



1. ITALIANO E LATINO

Nel ‘500, il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo nel contempo il riconoscimento pressoché unanime dei dotti, che gli era mancato durante l’Umanesimo.

Il volgare scritto raggiunse nel ‘500 un pubblico molto ampio di lettori. La storia della lingua italiana nel periodo dal ‘500 al ‘700 potrebbe essere vista proprio come una lotta serrata con il latino, a cui venne tolto progressivamente spazio.

Nel Rinascimento il latino resisteva saldamente al livello più alto della cultura. Però la crisi umanistica del volgare era ormai superata. Gli intellettuali avevano generalmente fiducia nella nuova lingua. Tale crescente fiducia derivava anche dal processo di regolamentazione grammaticale allora in corso.

Verso la metà del ‘500 si assiste al definitivo tramonto della scrittura di coinè, la quale, nelle sue vistose contaminazioni fra parlata locale, latino e toscano, rimase poi appannaggio degli scriventi meno colti.

Il latino mantenne una posizione rilevante in molti settori. Il caso più evidente è quello della pubblica amministrazione e della giustizia, per le quali nel XVI secolo la maggior parte degli statuti editi nelle città italiane era ancora in latino.

Il latino era pane quotidiano per i giuristi, ma nelle verbalizzazioni delle inchieste, il volgare a poco a poco trovava spazio.

Il variato intreccio tra latino ed italiano, tra scritto e parlato, tra formula giudiziaria e registrazione della viva voce si ritrova nella deposizione di un aguzzino della Gran Corte della Vicaria, il quale descrive davanti al giudice il comportamento di Tommaso Campanella, dopo che era stato sottoposto a quasi quaranta ore di tortura. Il verbale relativo a tale testimonianza si apre e si chiude in latino. In volgare sono le parole dell’aguzzino.

Nella produzione dei libri, quasi esclusivamente in latino si presentano la filosofia, la medicina e la matematica. Il volgare viene usato nella scienza quando si tratta di stampare opere di divulgazione. Quanto al settore umanistico-letterario vero e proprio, il volgare trionfa nella letteratura e si afferma nella storiografia grazie a Machiavelli e Guicciardini. La percentuale più alta di libri in volgare viene stampata dall’editoria di Venezia, seguita da quella di Firenze.

2. PIETRO BEMBO E LA QUESTIONE DELLA LINGUA

Nel 1501 usciva in piccolo formato il Petrarca volgare curato da Bembo.

Lo stampatore Manuzio, nella premessa a questa edizione del Petrarca, difendeva il testo dalle rimostranze di coloro che vi avrebbero eventualmente potuto riconoscere un allontanamento dalle tradizionali grafie latineggianti, eredità della coinè ‘400-‘500esca. Tale allontanamento dalla consuetudine era visibile fin da titolo del libro, che era Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca, e non le cose vulgari.

Ma le innovazioni introdotte da Bembo erano anche di maggiore portata: sulla forma linguistica di quel testo di Petrarca si sarebbero fondate in seguito le teorie esposte nelle Prose della volgar lingua. Compariva inoltre il segno dell’apostrofo, ispirato alla grafia greca.

In nessun altro secolo il dibattito teorico sulla lingua ebbe tanta importanza come nel ‘500, anche perché l’esito di queste discussioni fu la stabilizzazione normativa dell’italiano.

Al centro di questo dibattito possiamo collocare le Prose della volgar lingua, pubblicate a Venezia nel 1525: è l’editio princeps a cui seguirono delle ristampe.

Le Prose sono divise in tre libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano, la quale però risulta poco sistematica ai nostri occhi di moderni, anche perché il trattato ha una forma dialogica.

Il dialogo che costituisce le Prose è idealmente collocato nel 1502: vi prendono parte quattro personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’ Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico) rappresenta la continuità con il pensiero dell’Umanesimo volgare. Federico Fregoso espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione. Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino) espone le tesi degli avversari del volgare, e infine Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro.

Nelle Prose viene svolta prima di tutto un’ampia analisi storico-linguistica, secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari. Il riscatto del volgare contaminato per le sue barbare origini era stato possibile grazie agli scrittori e alla letteratura.

L’italiano era andato progressivamente migliorando, osservava Bembo, mentre un’altra lingua moderna, il provenzale, che pure aveva preceduto l’italiano nel successo letterario, era andata progressivamente perdendo terreno. Il discorso si spostava dunque sulla letteratura, le cui sorti venivano giudicate inscindibili da quelle della lingua.

Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano: ma non il toscano vivente, il toscano parlato nella Firenze del XVI secolo, bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio.

Questo è un punto fondamentale della tesi bembiana: egli non nega che i toscani siano avvantaggiati sugli altri italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma della nobile lingua della letteratura. Il punto di vista delle Prose è squisitamente umanistico, e si fonda sul primato della letteratura.

La lingua non si acquisisce dunque dal popolo, secondo Bembo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti appunto.

La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un’ideale rigorosamente classicistico, la cui natura è squisitamente letteraria.

Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e realistico.

Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema invece poteva venire dalle parti del Decameron, in cui emergeva più vivace il parlato.

E’ vero che Bembo era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una vetta qualitativa insuperata nel ‘300, con le Tre Corone. E’altrettanto vero però che egli non escludeva che il volgare, così giovane in confronto al latino, potesse ancora raggiungere risultati eccezionali, proprio attraverso la nuova regolamentazione proposta nelle Prose.

La soluzione di Bembo fu quella vincente. Essa formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti. Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo, depurando il volgare stesso dagli elementi eterogenei della coinè primo-cinquecentesca.

3. ALTRE TEORIE: “CORTIGIANI” E “ITALIANI”

Le fonti più ricche di notizie sulla teoria cortigiana sono proprio gli scritti degli avversari: è lo stesso Bembo, nelle sue Prose, a parlare dell’opinione di Calmeta, secondo la quale il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane, e specialmente nella corte di Roma.

Egli fa riferimento alla fondamentale fiorentinità della lingua, la quale si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma.

Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni d’Italia, mai plebea, con una coloritura latineggiante il cui modello stava nella lingua della corte di Roma, una lingua “commune”.

Bembo obiettava ai sostenitori della lingua comune che una lingua cortigiana era un’entità difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile all’omogeneità. In effetti, proprio questo difetto fece sì che la teoria cortigiana non uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco. La teoria arcaizzante di Bembo aveva su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli molto più precisi.

Nel 1529, Trissino diede alle stampe il De vulgari eloquentia di Dante, ma non nella forma latina originale, bensì in traduzione italiana. Nello stesso anno egli pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia, e non era quindi definibile come fiorentina, bensì come italiana.

La tesi di Trissino negava dunque la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario.

Trissino, inoltre, aveva proposto una riforma dell’alfabeto italiano, in particolare con l’introduzione di due segni del greco, ipsilon e omega.

4. LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E A BEMBO

La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli. Dante dialoga con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi nel De vulgari eloquentia, ed è condotto ad ammettere di aver scritto in fiorentino, non in lingua curiale (cioè in una lingua comune o cortigiana).

Viene inoltre rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese dei settentrionali.

Ben presto si sviluppò una polemica sull’autenticità del De vulgari eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai pubblico il testo originale latino dell’opera.

Martelli, Gelli e Varchi individuavano nell’opera delle contraddizioni rispetto alle idee espresse da Dante nel Convivio e nella Commedia. Varchi affermò che il trattato conteneva vere e proprie sciocchezze, cose che Dante non avrebbe mai potuto scrivere.

Nella prima metà del ‘500, tuttavia, gli intellettuali fiorentini non trovarono un modo efficace di contrapporsi alla tesi del fiorentino arcaizzante di Bembo, che avversavano. Fu uno studioso senese, Claudio Tolomei, a rimettere in gioco il volgare vivo, d’uso; egli parlò tuttavia (nel Polito e nel Cesano) di un modello “toscano”, non più specificamente fioretino.

Nel 1570 uscì a Firenze e Venezia l’Hercolano di Benedetto Varchi: egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che gli era naturalmente avversa.

La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu affatto fedele, e anzi risultò alla fine un vero e proprio tradimento delle premesse del classicismo volgare. Ciò servì però a rimettere in gioco il fiorentino vivo, dandogli un ruolo e una dignità. Fu una vera e propria riscoperta del parlato.

Per Varchi la pluralità di linguaggi non va spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Inutile veniva reputata la ricerca del primo linguaggio umano. Il trattato di Varchi affiancava dunque al modello linguistico bembiano la lingua parlata di Firenze.

La revisione del bembismo operata da Varchi vanificava l’austero rigore delle Prose della volgar lingua, caratterizzate dalla loro attenzione per il ruolo dei grandi scrittori. L’Hercolano sanciva invece il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare (seppure non propria del popolazzo) da affiancare a quella dei grandi scrittori. Questi principi permisero a Firenze di esercitare di nuovo un controllo sulla lingua.

5. LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA

Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, nei quali si riflettono le proposte teoriche, in particolare quella di Bembo. Già il terzo libro delle Prose è una vera e propria grammatica, seppure esposta in forma dialogica.

Bembo era stato preceduto da Fortunio nel 1516, che ad Ancona stampò le Regole grammaticali della volgar lingua. Queste grammatiche non si proponevano ambiziosi obiettivi teorici, ma avevano uno scopo eminentemente pratico.

Nel fiorire di grammatiche, pubblicate soprattutto dall’editoria veneta, si segnala l’assenza di opere prodotte dall’editoria di Firenze. Il malumore toscano per l’ingerenza di grammatici e teorici forestieri in quella che veniva pur sempre reputata una lingua prima di tutto patrimonio locale, e non proprietà comune, non seppe tradursi in un’adeguata risposta sul piano normativo.

Cosimo de’ Medici aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua in maniera ufficiale e per contro l’Accademia stessa non arrivò ad un accordo.

I vocabolari del ‘500 contenevano un numero relativamente limitato di parole, ricavate da spogli condotti sugli scrittori, Dante, Petrarca e Boccaccio in primo luogo.

Il più noto vocabolario della prima metà del ‘500, strutturato in forma di dizionario metodico, è la Fabbrica del mondo (1548) di Francesco Alunno di Ferrara.

La grammatica di Bembo influenzò l’esito di un grande capolavoro quale l’Orlando furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo proprio le indicazioni delle Prose.

Tra le correzioni si ricordano la sostituzione dell’articolo maschile el con il, le desinenze del presente indicativo prima persona plurale regolarizzate in –iamo e la prima persona singolare dell’imperfetto in –a alla maniera dei trecentisti.

6. IL RUOLO DELLE ACCADEMIE

Pietro Pomponazzi detto il Peretto (1462-1524) dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche alla lingua volgare, con ricchezza di traduzioni e con conseguente modernizzazione e democratizzazione della cultura. Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere.

Le accademie, come quella degli Infiammati, svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto in esse si organizzarono gli intellettuali e vennero dibattuti i principali problemi culturali sul tappeto.

La più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della Crusca, ancora oggi attiva. La sua fondazione risale al 1582.

La Crusca, nella prima fase della sua esistenza, si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da Salviati, contro la Gerusalemme liberata di Tasso. Lo stesso Salviati conduce un intervento sul testo del Boccaccio per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente censurabili.

L’intervento di una censura moralistica, certo repellente al nostro gusto di moderni, fu dunque, per paradosso, l’occasione per la nascita e lo sviluppo di un’attenzione filologica per il testo del Decameron.

Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di Dante. Nel 1595 uscì a Firenze La Divina Commedia di Dante Alighieri ridotta a migliore lezione dall’Accademia della Crusca.

7. LA VARIETA’ DELLA PROSA

L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose decisamente. Fra le traduzioni determinanti per la stabilizzazione del lessico tecnico, la più importante fu senz’altro quella del maestro latino dell’architetture Vitruvio.

La prima traduzione italiana a stampa di Vitruvio si era avuta all’inizio del XVI secolo da parte del pittore e ingegnere lombardo Cesare Cesariano, nelle forme tipiche della coinè settentrionaleggiante.

Molte parole italiane, relative all’architettura civile e militare, entrarono anche nelle altre lingue europee, così facciata (fr. Façade, sp. Fachada).

Senza dubbio le traduzioni dei classici costituiscono un capitolo fondamentale per la storia dell’italiano. Proprio nel confronto col latino, la lingua italiana affinò le proprie capacità e sperimentò le proprie potenzialità.

La traduzione fu il settore che meglio funzionò come banco di prova delle capacità dell’italiano. Lo prova la versione degli Annali di Tacito, a cui attese tra il 1596 e il 1600 il fiorentino Bernardo Davanzati Bostichi sforzandosi di gareggiare in concisione con l’originale.

Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato De principatibus di Machiavelli, prosa molto diversa dal modello proposto da Bembo. Machiavelli scrive in un fiorentino ricco di latinismi come tamen e etiam, che non hanno una funzione nobilitante ma piuttosto ricollegano questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco.

Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta ai fini pratici, non nella ricerca di tipo accademico. La scelta del volgare acquista tuttavia un rilievo particolare nel caso di Galileo.

Rinunciando al latino, Galileo finiva per pagare un prezzo: il volgare, infatti, aveva lo svantaggio di limitare la circolazione internazione. Galileo e i suoi amici erano coscienti del fatto che l’italiano era in quel momento molto meno vantaggioso del latino per una comunicazione con gli scienziati degli altri stati europei.

Nel settore dei libri geografici, va registrato prima di tutto un fatto editoriale di grande rilievo: la pubblicazione della raccolta Navigazioni e viaggi di Ramusio.

L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste prima di tutto nella possibilità di reperire in essa neologismi e forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. In secondo luogo questa letteratura può esprimere interessi linguistici specifici, quando accede che il viaggiatore si occupi degli idiomi parlati o scritti con cui è venuto a contatto.

Lo spagnolo aveva allora una grande importanza come lingua internazionale. Carletti, che compì il giro del mondo, dice che per cavarsela in un viaggio come il suo era sufficiente parlare spagnolo e portoghese: usa nei suoi Ragionamenti molti neologismi e forestierismi (i cochos gustati a Capo Verde, le badanas, le patatas, etc.).

Al di fuori della letteratura, nei settori pratici, nel ‘500 si assiste ad una crescita sostanziale dell’impiego della lingua italiana. Aumentano le occasioni di scrivere, cresce l’uso della lingua, a volte utilizzata anche da persone di scarsa cultura.

Ovviamente le scritture popolati e semipopolari sono caratterizzate da regionalismi e dialettismi. Il modello omogeneo di lingua toscana diffuso con il successo delle teorie di Bembo e con la produzione grammaticale e lessicografica agiva solo sugli scriventi colti.

8. IL MISTILINGUISMO DELLA COMMEDIA

Fin dalla prima metà del ‘500 la commedia si rivelò come il genere ideale per la realizzazione di un vivace mistilinguismo o per la ricerca di particolari effetti di parlato.

La ricerca di parlato propria del teatro toscano è esemplificata in maniera clamorosa dal fiorentino Giovan Maria Cecchi (1518-1587): egli, per rendere saporoso e colorito il dialogo delle proprie commedie, le riempì di motti e proverbi, di riboboli.

“Non valete tre man di noccioli” (“Non siete buoni a niente”) ne è un esempio.

La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi codici per i diversi personaggi, secondo le tendenze che presto finirono per cristallizzarsi: agli innamorati si addice il toscano, ai vecchi il veneziano e il bolognese, per i capitani e per i bravi è adatto lo spagnolo, ai servi conviene il milanese, il bergamasco o il napoletano.

Quanto all’uso caricaturale del dialetto, sarà da osservare che alcuni autori introducono personaggi che sanno utilizzare diverse parlate: Andrea Calmo, nella Rodiana, approfitta per due volte dell’abilità polilinguistica di un servo che imita napoletano, francese, milanese, raguseo, spagnolo e fiorentino.

Quanto al linguaggio della commedia dell’arte, bisogna accettare un dato di fatto: il testo orale delle rappresentazioni improvvise dei comici dal ‘500 al ‘700 è perduto.

9. IL LINGUAGGIO POETICO

Il petrarchismo è caratteristico del linguaggio poetico cinquecentesco: vi è la scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi.

I rapporti tra Tasso e la Crusca costituiscono un capitolo celebre e doloroso nelle discussioni linguistico-letterarie della fine del ‘500. Tasso non mise mai in discussione la sostanziale toscanità della lingua italiana. Non riconobbe però il primato fiorentino.

La polemica con la Crusca non toccò mai la sua poesia lirica, né i versi dell’Aminta, ma il poema. Tra le accuse rivolte al Tasso epico, quella riguardante lo stile, che era giudicato oscuro, distorto, sforzato, inusitato, aspro; la sua lingua era giudicata “troppo culta”; il suo linguaggio era visto come un mistura di voci latina, pedantesche, straniere, lombarde, nuove, composte, improprie; i suoi versi erano giudicati aspri.

I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile da intendere, specialmente quando le sue ottave venivano ascoltate durante una lettura ad alta voce; Tasso costringeva dunque il suo pubblico alla lettura silenziosa, a un esame visivo del testo, e questo era un modo per superare l’ostacolo della legatura distorta.

Anche sul lessico i puristi trovano da ridire, in quanto Tasso avrebbe usato un numero eccessivo di latinismi e alcune parole lombarde.

Il latinismo era non di rado una validissima alternativa al fiorentinismo, e come tale non era gradito ai fiorentini. Si conferma con Tasso la tendenza alla serie lessicale nobile, per cui non dirà “a mezzogiorno” ma “d’in verso l’austro”. Il latinismo lessicale è uno degli elementi utilizzati per fare conseguire alla poesia, e soprattutto a quella epica, il livello elevato.

Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto letterario, visto che Tasso si era necessariamente staccato dal modello di Ariosto, senza preoccuparsi delle norme bembiane.

Salviati prova fastidio per quella stella di prima grandezza nel mondo della letteratura volgare, la quale ancora una volta, brillava lontano da Firenze, e sembrava non riconoscerne il primato.

Tasso, nella sua Apologia, proponeva la distinzione tra fiorentino antico e fiorentino moderno, contestando che i fiorentini potessero ambire a essere migliori giudici di altri; e arrivava ad affermare che la lingua volgare era ormai qualcosa di separato dal volgo, avendo acquisito una dimensione colta, non popolare: come dire che Firenze non aveva più ragioni per avanzare diritti sul dominio naturale della propria lingua, perché questo dominio non esisteva.

Le dispute fra Tasso e Salviati mostrano il profilarsi di un divorzio: mentre l’Accademia stava per coronare il suo progetto istituzionale, inteso a regolare in maniera decisiva la lingua italiana, la repubblica delle lettere prendeva autonomamente un’altra strada.

Da Firenze venne il miglior vocabolario, non certamente la miglior letteratura.

10. LA CHIESA E IL VOLGARE

La Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica nel periodo dal Concilio di Trento alla fine del ‘600. La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella predicazione.

Il rapporto fra la chiesa e la lingua volgare fu affrontato anche nel dibattito che si svolse al Concilio di Trento. Il Concilio discusse la legittimità delle traduzioni della Bibbia.

Nel 1559 Paolo IV riservava un’apposita menzione alle Bibbie volgari, delle quali era vietato il possesso senza apposita licenza del Santo Uffizio.

La questione in gioco, dietro il problema della traduzione, era quella della libera interpretazione della Scrittura. La diffusione del solo testo latino, al contrario, avrebbe reso il libro sacro più distante dagli interpreti meno colti, garantendone la funzione di controllo della gerarchia ecclesiastica.

Nel Concilio, alcuni vedevano nella Bibbia in mano a tutti una rischiosa fonte di errori e di eresie. Altri erano fautori della traduzione della Bibbia, in nome del fatto che la “chiave della scienza” non poteva essere strappata di mano agli indotti.

Prevalse la posizione di un gruppo maggioritario che preferì far cadere ogni riferimento alla questione, lasciando decidere, come si è detto, ai pontefici.

La discussione sul tema della Messa ricalca in qualche modo quella sulla Bibbia. Veniva sottolineata in maniera particolare la funzione di lingua “sacra” propria del latino, che garantiva inoltre un’omogeneità internazionale nel messaggio della Chiesa.

Il volgare, respinto dai piani alti della cultura ecclesiastica, confermava viceversa il suo ruolo decisivo nel settore che risentiva direttamente del confronto con i fedeli: il momento della predica. La predicazione era quindi una sorta di oasi del volgare.

Una volta ammesso che il volgare fosse da adottare solo nel momento specifico dell’omelia, restava da stabilire che forma e che qualità esso dovesse avere.

Il primo elemento di cui si deve prendere atto è la forte influenza del bembismo anche nel campo della predicazione. La predicazione si presentava come un settore vergine, nuovo, e non a caso molte volte i grandi predicatori del secondo ‘500 come Panigarola tornavano sul tema della perniciosa dulceda, la pericolosa dolcezza delle arti oratorie dei pagani.

Francesco Panigarola, nel Predicatore, trova posto per una sezione specifica relativa alla “lingua, che ha da adoperare il predicator italiano”. Vi si trova non solo l’adesione ai principi fiorentinismi di Bembo, ma, in più, il riconoscimento del primato della lingua fiorentina parlata, giudicata come la più adatta al pulpito, se depurata dai localismi fiorentini troppo evidenti.


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