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CAPITOLO NONO – IL NOVECENTO



1. IL LINGUAGGIO LETTERARIO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO

La lingua italiana si presenta nel ‘900 con un ribollire di novità. Probabilmente Carducci è l’ultimo scrittore che incarna il ruolo tradizionale del vate.

Anche la poesia di D’Annunzio non rinuncia alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale. G.L. Beccaria ricorda che ippopotamo diventa “pachidermo fiumale”.

D’altra parte, la poesia di D’Annunzio si presenta come innovativa, per la capacità di sperimentare una miriade di forme diverse (anche metriche, fino a preludere ormai al verso libero), e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi antichi. D’Annunzio è un consumatore onnivoro di parole, è un compulsatore di vocabolari e di lessici specialistici. Gli si devono, fra l’altro, alcuni neologismi tra i quali velivolo per aeroplano, così come ha avuto fortuna il nome da lui suggerito per la Rinascente (grande emporio milanese distrutto da un incendio e rinato dalle proprie ceneri).

Inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e i nomi di persona latini e punici per il colossal del 1914 Cabiria.

Una prima rottura col linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i crepuscolari e le avanguardie.

Benché Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, benché sappia maneggiare perfettamente la forma antica, con lui “cade” la distinzione fra parole poetiche e non poetiche, fino ad includere dialettismi, regionalismi e persino un po’ di italoamericano in Italy.

La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza verso la prosasticità, rovesciò il tono sublime. In Gozzano, il rovesciamento dei toni si ha mediante una dissacrante ironia.

Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica sostanzialmente col futurismo. Fra le innovazioni più vistose ed effimere ricordiamo l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere l’intensità e il “volume fonico” delle parole, l’abolizione della punteggiatura e il largo uso di onomatopee.

Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel Notturno e nel tardo Libro segreto. La prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti “a capo”, per la presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico.

Ecco un esempio in cui D’Annunzio, cieco, si impersona in una rondine:

“Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. / Viene dalla riva degli Schiavoni. / Passò sopra Chioggia. / Volò a San Francesco del deserto”.

D’Annunzio, dunque, col suo gusto per lo sperimentalismo, è una sorta di Giano bifronte: si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove tendenze.

Un interessante riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, nelle opere teatrali, dove si ha la presenza di una serie di interiezioni frequentissime come “ah sì!”, “eh via!”, e connettivi come “è vero”, “ si sa”.

Va ricordato inoltre che Pirandello “è sempre stato programmaticamente diffidente verso il dialetto come strumento letterario”.

L’altro grande scrittore del primo ‘900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come quella di Trieste. A lui fu rivolta l’accusa di “scriver male”.

La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e culta come quella italiana poteva essere persino una forza, una verginità; e forse effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo.

Uno dei punti di riferimento per gli scrittori rimane sempre però il dialetto. Bisogna distinguere fra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e lingua. Nel ‘900, anche il toscano può essere considerato alla stregua di un dialetto: Federico Tozzi introduce senesismi dei suoi romanzi (parole come astiare per odiare). Negli scrittori invece mistilinguisti come Carlo Emilio Gadda, non c’è un solo dialetto, ma una varietà: lombardo, fiorentino, romanesco, molisano, etc.

2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE

L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da Mussolini. Gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla, secondo i dettami, appunto, dell’oratoria tradizionale.

Se dovessimo indicare un modello che, meglio di quello mussoliniano, rappresenta le tendenze di un’oratoria letteraria e magniloquente, coltissima, efficace, ben radicata anche nel militarismo patriottico della Grande Guerra, dovremmo riferirci ancora una volta a D’Annunzio.

Sicuramente il modello dannunziano influì sulla retorica del Fascismo. Nella lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri: abbondanza di metafore religiose (martire, asceta, etc.), militari (falangi, veliti), equestri (redini del proprio destino), oltre a tecnicismi di sapore romano, come Duce, littore, centurione e manipolo.

Si aggiunga l’ossessione dei numeri: l’insistenza, ad esempio, sui milioni di italiani, sulle migliaia o decine di migliaia di caduti, di feriti, etc. Rispetto ai modelli di retorica alta prima esaminati, l’oratoria mussoliniana rivolta al popolo si distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale risponde con l’ovazione collettiva. Ovviamente nel discorso mussoliniano ha largo posto lo slogan, l’esagerazione e il luogo comune: massa compatta, compiti poderosi, pagine di sangue e di gloria, fermissima incrollabile decisione, etc.

3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO

Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica: la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale, la repressione delle minoranze etniche e la polemica antidialettale erano i punti fermi.

Nel 1930 si ordinò la sospensione nei film di scene in lingua straniera. Nel 1940 l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare alternative, anche perché una legge dello stesso 1940 vietò l’uso di parole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali e nelle varie forme pubblicitarie.

Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, in cui agli interventi scientifici si affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare, elaborò una concezione moderatamente avversa ai forestierismi, definita “neopurismo”.

A Migliorini si deve fra l’altro la brillante sostituzione della parola resgista al francese regisseur.

Con l’avvento della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba. Ora in campo linguistico esiste una certa vitalità, dopo che è stata approvata una legge molto radicale sulla protezione delle minoranze, nella quale si riconosce tuttavia che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (legge 15 dicembre 1999, n.482).

Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono pubblicati vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti.

Nella lingua comune, le parole suggerite dall’Accademia si affiancarono al forestierismo; ancora permane ai tempi nostri una concorrenza, diventata una pacifica convivenza, tra termini come “rimessa/garage” e “villetta/chalet”.

Durante il Fascismo vi fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “Lei” (febbraio 1938), e sostituirlo col “Tu”, considerato più romano, e con il “Voi” (di rispetto, rivolgendosi ai superiori). La campagna non ebbe molto successo.

All’inizio del ‘900 la Crusca tentava ancora di concludere una nuova versione del suo vocabolario, la quinta, avviata nel 1863. La mole dell’opera era davvero notevole, ma la realizzazione si trascinò stancamente.

Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, filosofo vicino al regime fascista, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il vocabolario. Si interruppe così la quinta impressione, giunta in tanti anni alla lettera “o”.

Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze; ma anche il nuovo e moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice: la pubblicazione di Giulio Bertoni arrivò infatti solo al primo volume (1941, lettere da A a C).

Il vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci antiche.

Nelle linee programmatiche, gli autori accennavano alla necessità dell’accettazione di vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove. Ci si mostrava coscienti che i vocaboli non si impongono per autorità né di Accademie, né di decreti. Di fatto i forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, e anche nella forma di prestiti non adattati, come boxe, bulldog e camion, posti in parentesi quadra al fine di segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua.

Un aspetto innovativo è il criterio di citazione degli esempi, un compromesso fra la forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori) e quella del Giorgini-Broglio (elimina il riferimento agli autori): sono infatti citati gli scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento preciso all’opera.

Questo vocabolario non ebbe tuttavia influenza. Troppo ridotta risultò la parte realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo.

Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, a uso primario degli annunciatori della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono il Prontuario di pronunzia e di ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia romana, là dove essa divergeva dalla fiorentina, rivendicando il ruolo di Roma nella questione della lingua.

Veniva proposto, per conseguenza, nei casi di divergenza con Firenze, di accettare l’uso romano.

4. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI ALLA LINGUA “STANDA”

A Pasolini si deve un clamoroso intervento nella “questione della lingua”. Nato come conferenza, questo intervento fu infine pubblicato sulla rivista “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”.

Partendo da queste premesse marxiste e gramsciane, sosteneva che era nato un nuovo italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del paese, dove avevano sede le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale.

Egli annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel senso che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in maniera omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Tale nuovo italiano poteva contare su:

1) la semplificazione sintattica, con la caduta di forme idiomatiche e metaforiche.

2) La drastica diminuzione dei latinismi.

3) La prevalenze dell’influenza tecnica rispetto a quella della letteratura.

Un coro di fischi accolse queste acute intuizioni di Pasolini. Diversi anni dopo Pasolini intervenne per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.

Egli utilizzava come sistema di riferimento il rapporto con la “lingua media” (negativa). Sembrava privilegiare viceversa gli esperimenti di plurilinguismo, alla maniera di Gadda.

Vittorio Coletti, parlando di narratori come Calvino, Tomasi di Lampedusa, Nathalie Ginzburg etc., osserva che la scelta da essi compiuta in favore della “lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni espressionistiche o d’avanguardia, è innanzitutto una scelta di una lingua più ricca e più complessa di quella ammessa dal romanzo nell’immediato dopoguerra”.

Si noti inoltre che gli scrittori della normalità stilistica, sono alla fin fine gli autori oggi più letti dal grande pubblico.

Lo scrittore gode oggi di una libertà grandissima: può anche arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta e massificata, che è stata ironicamente definita anziché standard, standa (Antonelli), in riferimento alla nota catena di supermercati.

Nei poeti come Saba, Ungaretti e Montale, il ‘900 sperimenta una grande varietà di soluzioni stilistiche, dall’apertura al linguaggio comune e quotidiano, fino agli esiti arditi di Zanzotto. Montale, dopo aver sapientemente selezionato quanto gli offriva la tradizione primo-novecentesca, è arrivato, in Satura (1971) a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, intrisa di citazioni di elementi quotidiani, tuttavia calcolata con straordinaria eleganza e letterarietà.

5. VERSO L’UNIFICAZIONE: “MASS-MEDIA”, DIALETTI, IMMIGRAZIONE

Vi era stata indubbiamente nel corso del ‘900 una perdita nei dialetti e nell’espressività gergale. Era nata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto.

L’analfabetismo, dal 75% del 1861 e dal 40% del 1911, era passato poi al 14% nel 1951, all’8,3% nel 1961 e al 5,2% nel 1971. I sondaggi ci dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune e che quindi oggi sono più “italianizzati”.

Negli anni ’60 e ’70, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola, promuovendo ed integrando nella realtà cittadina e industriale, masse di origine contadina.

La radio italiana nacque nel 1924. La televisione del gennaio del 1954. De Mauro ne ha messo in evidenza gli effetti, decisivi per l’unificazione linguistica, legati alla Rai.

L’effettiva influenza odierna linguistica della televisione è assai minore comunque a quella del suo primo decennio di vita.

Per la diffusione di forme della varietà regionale romana, ha avuto largo spazio la Rai; quanto alle reti private Mediaste, esse diffondono spesso il modello linguistico settentrionale, in genere milanese, il cui prestigio è andato crescendo.

Il quotidiano è il “tramite fondamentale fra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata” (Beccaria), e inoltre il giornale può essere assunto come un indice della lingua media.

Nel giornale troviamo una pluralità di sottocodici (politico e finanziario, per es.) e di registri (aulico, brillante, etc.). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio del giornale sta nei titoli. Lo slogan deve colpire il lettore, e spesso consiste in una frase nominale.

Gran parte della fortuna recente di parole come ABS, retrofit o air-bag è affidata alla martellante pubblicità delle case automobilistiche.

La lingua della pubblicità tende sovente a forzare, ad esempio mediante un marcato uso dei superlativi, sia con desinenza –issimo, sia mediante i prefissi extra, iper, super, etc.

6. L’ITALIANO DELL’USO MEDIO E LA LINGUA SELVAGGIA

L’italiano dell’uso medio è comunemente parlato a livello non formale. La differenza rispetto all’italiano che si usa chiamare standard sta nel fatto che questo italiano dell’uso medio accoglierebbe fenomeni del parlato, presenti magari da tempo nello scritto, ma generalmente tenuti a freno dalla norma grammaticale, che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli. Lo standard rappresenta dunque un italiano ufficiale ed astratto, mentre l’italiano dell’uso medio rappresenta una realtà diffusa. Questi ne sono tratti caratteristici:

1) lui, lei, loro usati come soggetto.

2) Gli generalizzato anche con il valore di le e loro.

3) Diffusione delle forme ‘sto e ‘sta.

4) Tipo ridondante a me mi.

5) Costrutti preposizionali con il partitivo, alla maniera francese (con degli amici).

6) Ci attualizzante con il verbo avere e altri verbi (che c’hai?).

7) Dislocazione a destra o a sinistra.

8) Anacoluti nel parlato (Giorgio, non gli ho detto nulla).

9) Che polivalente.

10) Cosa interrogativo al posto di che cosa.

11) Imperfetto al posto del congiuntivo e condizionale nel periodo ipotetico dell’irrealtà.

L’italiano unitario medio è essenzialmente parlato. Tappa importante sul cammino di un’omologazione di tutti gli italiani fu, nel 1962, l’introduzione della scuola media unica, uguale per tutti, con obbligo scolastico fino ai 14 anni.

Per la sua forte incidenza sociale, la scuola è diventata, a partire dagli anni ’70, l’obiettivo privilegiato degli interventi di coloro che vedevano nelle forme tradizionali di insegnamento della lingua uno strumento di repressione.

Don Milani mette a nudo le condizioni di vera indigenza linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere. Don Milani mette anche in discussione qualunque norma linguistica, qualunque forma alta di comunicazione, identificandovi un trabocchetto repressivo ai danni degli umili.

Messi sotto accusa per aver tramandato un italiano “puristico-scolastico”, in cui non si dice arrabbiarsi ma adirarsi, in cui fare è ritenuto generico e improprio (svolgere i compiti), alcuni docenti si sono buttati sulla sponda opposta, limitandosi a prendere atto del modo di esprimersi e del modo personale che ogni alunno si è formato negli ambienti pre ed extrascolastici, senza arricchirli.

Oggi si riscontrano carenze linguistiche di base non soltanto negli studenti della scuola dell’obbligo, ma anche in allievi assai avanzati nel corso dei loro studi. Francesco Bruni a questo proposito ha parlato di un italiano selvaggio.


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