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CAPITOLO PRIMO – ORIGINI E PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO



1. DAL LATINO ALL’ITALIANO

L’italiano deriva dal latino, ma non dal latino classico degli scrittori, bensì dal cosiddetto latino volgare. Il latino non aveva dunque una unità linguistica assoluta. Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare all’origine degli sviluppi romanzi è la comparizione tra le lingue neolatine.

Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto. Altre parole furono innovazioni del latino parlato, e non sono attestate nello scritto, come Putium. In altri casi ancora si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, la quale assunse un senso diverso nel latino volgare. E’ il caso di Testa(m), che era in origine un vaso di terracotta, ma che poco a poco sostituì Caput: evidentemente Testa(m) ebbe in un primo tempo un significato ironico, e designò il Caput in maniera scherzosa, come noi possiamo dire Zucca, Crapa, etc. Poi la sfumatura ironica sparì, e il termine assunse in toto il significato nuovo. Si consideri ancora l’italiano fuoco, derivato da focus, che in latino non era un fuoco qualunque (il latino letterario aveva il termine Ignis), ma il focolare domestico.

Esiste anche una serie di testi che possono darci informazioni utili per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata.

Anche i testi teatrali latini contengono elementi di parlato, soprattutto quelli di Plauto. Importante è poi un romanzo come il Satyricon. In Petronio coesistono forme come Pulcher, Formosus e Bellus: il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne, mentre gli ultimi due sono all’origine delle forme romanze, lo spagnolo Hermoso, l’italiano Bello, il francese Beau.

Un particolare rilievo, tra i documenti del latino volgare, ha la cosiddetta Appendix Probi, una lista di 227 parole o forme o grafie non corrispondenti alla buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. Gli studiosi la collocano nel V o VI secolo d.C. Un maestro di quell’epoca raccolse le forme errate in uso presso i suoi allievi, affiancandole alle corrette, secondo il modello “A non B” (speculum non speclum, oculus non oclus).

L’Appendix Probi è l’occasione per riflettere su una serie di tendenze aberranti rispetto alla norma classica, che tuttavia contenevano gli sviluppi della successiva evoluzione verso la lingua nuova. L’errore dunque, è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore medesimo possono manifestarsi tendenze innovative importantissime. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa essa stessa norma.

Gli studiosi fanno riferimento di solito a fenomeni di “sostrato”: il latino si impose su lingue preesistenti (etrusco, osco-umbro, etc.), che non mancarono di influenzare l’apprendimento della lingua di Roma.

Si è spiegata con il sostrato celtico la presenza delle vocali turbate nel settentrione d’Italia, con il sostrato osco-umbro si è spiegata la tendenza all’assimilazione di –nd- > -nn- e –mb- > -mm- nei dialetti centro-meridionali.

Un altro problema è il ruolo del “superstrato”: l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, come avvenne al tempo delle invasioni barbariche.

Di fatto, l’apporto lessicale all’italiano risalente a queste lingue non è di grande rilevanza. I termini gotici entrati nell’italiano sono meno di una settantina, e tra essi si possono citare le voci “astio”, “bega”, “melma”, “nastro”, “stecca” e “strappare”.

L’invasione dei longobardi fu più violenta e brutale e durò più a lungo. Le parole longobarde che sono state contate nell’italiano e nei dialetti italiani sono oltre duecento, tra arcaiche e moderne, dialettali e di lingua: i toponimi in –ingo e –engo, guancia, stinco, nocca, zazzera, grinfia, stamberga, panca, scaffale, federa, gruccia, palla, zaffata, staffa, spalto, termini giuridici e tecnici come faida e arimanno. Inoltre sono longobardi verbi concreti ed espressivi come arraffare, russare, schernire, scherzare, spaccare, spruzzare e tuffare.

I franchi furono un’elite che si insediò ai vertici del potere civile e militare. Sono probabilmente da considerare franchismi i termini come bosco, guanto, dardo e biondo. L’influenza d’oltralpe si fece sentire poi fortemente nei secc. XI e XII, con la diffusione anche da noi della letteratura francese e provenzale.

Ritornando comunque al periodo carolingio, entrarono allora termini relativi all’organizzazione politica e sociale: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, sire e vassallo.

2. FONETICA E GRAMMATICA STORICA

Le modificazioni subite dal latino seguono determinate regole di sviluppo. Queste regole sono organizzate in forma sistematica dalla grammatica storica.

Le vocali possono essere classificate in base al loro punto di articolazione, centrale, anteriore o posteriore. La vocale “centrale” è la “a”, le tre vocali “anteriori o palatali” sono i, è, è, le tre “posteriori o velari” sono u, o, ò. La “e” e la “o” si distinguono in chiuse e aperte.

Vi sono lingue e dialetti che hanno anche le vocali cosiddette turbate, la ö e la ü, assenti nell’italiano ma presenti nel francese. La vocale indistinta o muta è presente nel francese “de”: la si indica convenzionalmente con “ë”.

Le vocali possono essere distinte, a secondo della loro durata, in lunghe e brevi. Le vocali che portano l’accento sono dette toniche, se no sono atone.

Combinazioni particolari di suoni sono i dittonghi, che possono essere ascendenti (piède, uòmo) o discendenti (fài, càusa). La “i” e la “u” nei dittonghi prendono il nome di “semiconsonanti”. Vengono rappresentate convenzionalmente con “j” e “w”.

Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o un’occlusione del flusso d’aria. Nel primo caso sono dette fricative, nel secondo caso occlusive. La combinazione delle prime e delle seconde produce le affricate. Le consonanti possono inoltre essere sorde o sonore: nelle sorde non di ha vibrazione delle corde vocali, nelle sonore sì.

Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio di aria nel naso, si ottengono le consonanti nasali. Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le consonanti laterali /l/ e /?/ (it. Figlio).

La consonante /r/ è vibrante.

La lingua italiana ha un sistema di sette vocali perché è ed è costituiscono opposizione fonematica. Il latino aveva dieci vocali, distinguibili in cinque lunghe e cinque brevi. Ad un certo punto, però, la quantità vocalica latina non fu più avvertita, cessò di avere rilevanza, e si trasformò in qualità: in parlanti pronunciarono le lunghe come strette e le brevi come aperte.

Lo sviluppo vocalico delle parole italiane è interessato inoltre dai fenomeni del dittongamento (pedem-piede, bonum-buono) e del monottongamento (aurum-oro, caudam-coda).

La metafonesi è invece una modificazione del timbro di una vocale per influenza di una vocale che segue. L’anafonesi invece è un fenomeno tipico del fiorentino e di una parte della Toscana: è il fenomeno per il quale una è tonica si trasforma in “i” davanti a /?/, mentre “o” tonica si trasforma in “u” davanti a /?/.

Hanno dato luogo quasi sempre a consonante doppia italiana anche i gruppi consonantici latini “ct” e “pt”: Lactem diventa latte, Septem sette. Un caso particolare di raddoppiamento è quello che si produce in fonosintassi, cioè nel contatto tra due parole: ad casam > akkasa.

La grafia italiana moderna registra il fenomeno solo quando si è prodotta l’univerbazione, cioè la riduzione a una sola parola (es: soprattutto, sebbene).

Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, come abbiamo visto, si ebbe la perdita delle consonanti finali (ad esempio della “m” dell’accusativo) e la perdita dell’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Nella lingua latina si ebbe dunque un collasso del sistema delle declinazioni.

Le parole italiane derivano generalmente dall’accusativo delle parole latine.

Il latino è “sintetico”, mentre il passaggio dal latino classico a quello volgare implica l’introduzione di elementi morfologici analitici quali articoli e preposizioni. Gli articoli determinativi italiani il, lo, la, etc. derivano dai dimostrativi latini Illum, Illam, etc.

Dal numerale latino Unum deriva invece l’indeterminativo un, uno.

Il latino aveva tre generi di nomi, il maschile, il femminile e il neutro. Quest’ultimo è sparito nelle lingue romanze, lasciando rare tracce. Caratteristica, nello sviluppo dei verbi, è stata la formazione del futuro, completamente diverso da quello latino. Il futuro dell’italiano e delle lingue romanze deriva infatti dall’infinito del verbo unito al presente di Habere.

Anche il passivo latino fu sostituito da forme analitiche (amatus sum al posto di amor). Nel latino classico era normale la costruzione con il verbo postumo alla fine della frase.

Il latino volgare invece preferì l’ordine diretto, soggetto-verbo-oggetto-complemento indiretto. Mentre il latino mostrava una propensione per le frasi subordinate (ipotassi), l’italiano rivela una preferenza per la coordinazione (paratassi), come il latino volgare.

3. QUANDO NASCE UNA LINGUA

L’esistenza del volgare cominciò a farsi sentire nel latino medievale, che lascia trapelare i volgarismi. La caratteristica dei documenti antichi del volgare è la casualità: nella loro realizzazione e nel ritrovamento.

Il primo documento della lingua francese sono i Giuramenti di Strasburgo dell’842. Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, di fronte ai loro eserciti, giurarono alleanza contro il fratello Lotario. Ognuno dei due re giurò nella lingua dell’altro: Carlo giurò in tedesco, Ludovico in francese.

L’intenzionalità nell’uso del volgare è in questo caso evidente, perché è legata ad una situazione pubblica e ufficiale quale è un patto di alleanza fra due sovrani. L’atto di nascita della lingua italiana, il Placito Capuano, è una formula connessa a un giuramento, che nasce da una piccola controversia di portata locale.

Un codice scritto in Spagna, all’inizio dell’VIII sec, e approdato già in epoca antica a Verona, reca nel margine superiore di un foglio due note in scrittura corsiva. La seconda è in latino corretto, la prima invece si presenta in forma diversa (“se pareva boves…”).

La postilla è stata giudicata variamente: come italiano volgare, come semivolgare, come vero e proprio latino seppur scorretto. La questione è probabilmente irresolubile. Detto questo, sarà ben difficile attribuire il titolo di “primo documento della lingua italiana” a un testo così controverso.

4. UN GRAFFITO E UN AFFRESCO

Caso curioso è quello dell’iscrizione della catacomba romana di Commodilla, la quale è un anonimo graffito tracciato sul muro. Benché sembri a prima vista conservare un aspetto latineggiante, vistosamente rivela il suo reale carattere di registrazione del parlato.

Il graffito può essere fatto risalire a un periodo tra il VI-VII secolo e la metà del IX, ed è così trascrivibile: “Non dicere ille secrita a bboce”, ovvero “Non dire quei segreti a voce alta”. Tale grafia rende in maniera fedele la pronuncia con betacismo (passaggio di v a b: lat. Vocem diventa Boce) e raddoppiamento fonosintattico.

L’iscrizione della basilica di San Clemente rientra invece in un progetto grafico ben più complesso: si tratta di un affresco in cui parole in latino e in volgare sono state dipinte fin dall’inizio accanto ai personaggi rappresentati, per identificarli e per mostrare il loro ruolo nella storia narrata.

Il pittore ha aggiunto una serie di parole che hanno funzione di didascalia, o che indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffigurati: queste frasi sono in un volgare vivace e popolarescamente espressivo. L’affresco fu dipinto alla fine dell’ XI secolo. Il latino è adottato nelle parti più elevate del testo, per indicare l’intenzione di chi ha fatto dipingere l’affresco o per esprimere il giudizio morale sull’accaduto.

Il volgare, per contro, esplode vivace nelle didascalie che registrano con marcato espressionismo plebeo voci e azioni dei personaggi (“Falite dereto co lo palo…”).

5. L’ATTO DI NASCITA DELL’ITALIANO: IL “PLACITO CAPUANO” DEL 960

Il “Placito Capuano”, un documento d’archivio, per la sua ufficialità gode del privilegio di essere comunemente considerato l’atto di nascita della nostra lingua. La scoperta risale al ‘700. Chi l’ha scritto si è reso perfettamente conto di utilizzare due lingue diverse, il latino notarile e il volgare parlato. Abbiamo dunque qui la prova di una cosciente distinzione tra i due codici linguistici.

Il Placito Capuano del 960 è un atto notarile, scritto su un foglio di pergamena, relativo ad una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi. Rodelgrimo rivendicava il possesso, in lite giudiziaria, di certe terre. L’abate di Montecassino invece invocava il diritto all’usucapione.

Durante la redazione di questo verbale fu compiuta una scelta inconsueta rispetto alle abitudini del tempo. Il dibattito doveva svolgersi già allora in volgare, non in latino. Il latino però era impiegato in tutti i tipi di verbali. Nel caso del Placito Capuano, la verbalizzazione in latino arrivò a includere vere e proprie formule testimoniali volgari (“…et testificando dixit: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…”).

La scelta di scriverla in volgare piuttosto che in latino non va spiegata tanto con il desiderio di essere fedeli al parlato dei testimoni, quanto come un modo per rivolgersi a un pubblico diverso, più vasto: come dire che era interesse dell’Abate che il risultato del processo fosse conosciuto per evitare altre analoghe contestazioni. In altre tre carte notarili analoghe, una di Sessa Aurunca e due di Teano, risalenti al 963, si trovano formule molto simili.

6. DOCUMENTI NOTARILI E GIUDIZIARI

Un buon numero dei più antichi documenti italiani è dovuto alla penna di notai. Il volgare può affiorare in forma di postilla, cioè in forma di testo aggiunto al rogito vero e proprio. E’ quanto accade nella cosiddetta Postilla amiatina del 1087. Il notaio estensore dell’atto in lingua latina aggiunse alla fine la seguente postilla: “Ista cartula est de caput coctu ille adiuvet de ill rebottu…”.

Dal punto di vista linguistico, si osserva la presenza delle u finali al posto delle o, una caratteristica presente nel territorio del Monte Amiata. I versi significherebbero: “Questa carta è di Capocotto: essa lo aiuti da quel ribaldo che tal consiglio gli mise in corpo”.

Gli studiosi hanno anche osservato che la postilla ha un andamento ritmico. Più di recente è stata avanzata l’interpretazione che rebottu alluda al Maligno.

Nella Carta osimana del 1151, il volgare affiora non in una postilla, ma all’interno del vero e proprio testo latino del rogito. Nella Carte fabrianese e in quella picena, si alternano latino e volgare.

Al gruppo delle carte giudiziarie vanno ricondotte due pergamene del 1158 conservate nell’archivio vescovile di Volterra. Nella sintesi di quanto hanno detto i testimoni affiora il volgare, nel bel mezzo del testo latino: “Sero ascendit murum et dixit: guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane”, ovvero “La sera salì sulle mura e disse: la guardia, fa male la guardia, perché non mangiai mai altro che mezzo pane”.

Il volgare viene così preferito la dove viene introdotto l’aneddoto.

7. IL FILONE RELIGIOSO NEI PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO

La Formula di confessione umbra, la cui datazione può essere fissata tra il 1037 e il 1080 ca., è un testo che il fedele deve leggere o recitare. I Sermoni subalpini invece sono una raccolta di prediche in volgare piemontese. Si tratta di un corpus di ben 22 testi piuttosto ampi. I testi alternano parti in latino al corpo vero e proprio del discorso, che è in volgare locale, caratterizzato da alcuni esiti propri anche del piemontese moderno.

8. DOCUMENTI PISANI

Ignazio Balzelli ha scoperto una carta pisana che si può collocare fra la metà dell’XI e la metà del XII secolo: l’antico documento ridotto al rango della nostra cartastraccia, già nel secolo XII fu tagliato, parzialmente cancellato e riscritto, e in seguito riciclato.

Balzelli qui ha avuto la ventura di scoprire il testo, che risulta essere un elenco di spese navali. Ancora a Pisa ci riporta un documento più tardo, anteriore però alla soglia nel XIII secolo: si tratta di una iscrizione su di un sarcofago del Camposanto, un’epigrafe che si inquadra nel ben noto tema del morto che parla al vivo. Si legge: “Homo ke vai per via prega deo dell’anima mia…”.

9. PRIMI DOCUMENTI LETTERARI

Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe solamente nel XIII secolo a partire dalla scuola poetica fiorita alla corte di Federico II, la cosiddetta Scuola siciliana.

Se cerchiamo tracce di componimenti poetici italiani, qualche cosa è dato trovare a partire dalla seconda metà del XII secolo, nella forma che comunemente viene definita “ritmo”.

Si trovano quattro versi volgari in una memoria latina esaltante le vittorie delle milizie di Belluno e di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196.

Il trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras ha scritto “le prime strofe regolari che ci siano pervenute nella nostra lingua”. Per trovare versi italiani con intento letterario dobbiamo sfiorare e forse scavalcare la soglia del XIII secolo, visto che a quella data alcuni spostano ora il cosiddetto Ritmo laurenziano.

Il primo testo è quello di una canzone di decasillabi, il cui verso iniziale è “Quando eu stava in le tu’ catene”. Il secondo testo si compone di cinque endecasillabi: il primo è “Fra tuti qui ke fece lu Creature”. Sono le più antiche testimonianze di poesia lirica d’amore in volgare italiano.

Tali documenti potrebbero autorizzare l’ipotesi di una scuola poetica italiana già attiva prima della Scuola siciliana di Federico II.


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