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CAPITOLO OTTAVO – L’OTTOCENTO



1. PURISMO E CLASSICISMO

All’inizio dell’800 si sviluppò un movimento che va sotto il nome di “Purismo”. Questo termine indica in sostanza l’intolleranza di fronte ad ogni innovazione, il culto dell’epoca d’oro della lingua, il ‘300.

Il tradizionalismo cruscante e il culto del fiorentino arcaico offriva salde basi al Purismo.

Il capofila del Purismo italiano è Padre Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi, di novelle, di studi danteschi ma soprattutto lessicografo. Secondo Cesari, “tutti in quel benedetto tempo del ‘300 parlavano e scrivevano bene. I libri delle ragione de’ mercatanti, i maestri delle dogane, gli stratti delle gabelle e d’ogni bottega menavano il medesimo oro…”.

Egli non stabilì che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui parlava misticamente.

Il marchese Basilio Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e privata, dedicata all’insegnamento della lingua italiana, intesa in base a una concezione puristica meno rigida di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori del ‘500.

Lo scrittore Carlo Botta fu autore di una Storia della guerra della indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809) in cui la lingua piena di arcaismi cozza col contenuto moderno.

Lo scrittore Vincenzo Monti ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno alle esagerazioni del Purismo. Definì Cesari il “grammuffastronzolo di Verona”, rinfacciandogli di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più ampia, in realtà di aver solamente “raccolto ed insaccato a ribocco tutte quelle voci ch’eransi a bello studio degli Accademici repudiate e dannate come lordure”.

Le polemiche linguistiche montiane compongo la serie di volumi intitolata Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal 1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolaristi fiorentini, dovuti anche alla loro scarsa preparazione filologica.

Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal intitolato “I pericoli della lingua italiana”. Questo scritto condannava con forza il Purismo e la particolare situazione linguistica del nostro paese, caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua letteraria.

2. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA “QUESTIONE DELLA LINGUA”

Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema, già sollevato nel ‘700, dell’italiano in tutto o in parte simile ad una lingua morta.

Manzoni, con le sue idee, maturate nella stesura dei Promessi Sposi, rende la nostra lingua più viva e meno letteraria.

Manzoni affrontò la “questione della lingua” a partire dalle sue personali esigenze di romanziere. Iniziò ad occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi. Questa prima fase eclettica cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno utilizzando il linguaggio letterario, ma senza vincolarsi ai puristi, anzi accettando francesismi e milanesismi, o applicando la regola dell’analogia. Questa descrizione della propria lingua letteraria fu data da Manzoni stesso nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, del 1823, dove prendeva ormai le distanze dallo stile “composito”, e lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il provvisorio fallimento. La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per l’edizione del 1825-27. In questo caso lo scrittore cercava di utilizzare una lingua genericamente toscana, ma ottenuta per via libresca.

Questo studio libresco, comunque, non poteva bastare. In lui maturò un concetto di uso molto più vitale e innovativo. Nel 1827 Manzoni fu a Firenze, e il contatto diretto con la lingua toscana suscitò una reazione decisiva. La nuova edizione dei Promessi Sposi, nel 1840-42, corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa scorrevole, piana, purificata da latinismo, dialettismi ed espressioni letterarie di sapore arcaico. Si trattava del linguaggio fiorentino dell’uso colto.

Nel 1847, in una lettera al lessicografo piemontese Giacinto Carena, Manzoni espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze completasse quell’opera di unificazione che già in parte si era realizzata proprio sulla base di quanto vi era di vivo nella lingua letteraria toscana.

Nel 1868 lo scrittore, in una Relazione al ministro Broglio, spiegò come il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una capillare politica linguistica, messa in atto nella scuola, a opera degli insegnanti, e proposta in forma di generalizzata educazione popolare. Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato da agili vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle proprie delle varie parlate d’Italia.

Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua, sollevando dubbi di varia natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze.

Quel modello sembrava aver la capacità di liberare la prosa italiana dall’impaccio della retorica; era l’antidoto ai difetti messi in evidenza dal manzoniano Ruggero Borghi nel bel saggio Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855). I difetti di costruzione e le inversioni, infatti, ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano, adatto a una piacevole conversazione, senza paludamenti classici.

L’esempio di Manzoni, inoltre, favorì la prassi della “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata in quella città. Influì sugli insegnamenti un libro come l’Idioma gentile di De Amicis (1905). La borghesia italiana, nella babele linguistica della nazione appena unificata, aveva appunto bisogno di libri del genere, facili e concreti.

L’unico freno al diffondersi della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu probabilmente il prestigio di un poeta-professore come Carducci, irriducibile avversario del “popolanesimo” toscaneggiante, pronto a sferzarlo con la sua satira.

3. UNA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA

L’800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per ricchezza di produzione e per qualità. La “Crusca veronese”, fondata nel 1806-11 da padre Antonio Cesari di Verona, aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con una serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor più a fondo il repertorio della lingua antica, la lingua trecentesca, ripescata non solamente negli scritti dei grandi autori, ma anche nei minori e minimi, poco colti e semipopolari.

Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della Crusca. Manuzzi fu un purista come Cesari.

Le opere citate possono dare l’impressione di una certa monotonia, di una mancanza di originalità, per il tentativo di sommare l’esistente mediante l’accumulo di giunte, aggiunte al vocabolario di base.

La somma delle giunte avveniva in maniera piuttosto meccanica, e ciò indica la difficoltà nell’amalgamare l’insieme, l’impossibilità di tagliare di netto con il passato. Persino gli esperimenti lessicografici più notevoli e innovativi prendevano pur sempre le mosse della Crusca, anche se poi se ne distanziavano in maniera critica.

Tra il 1829 e il 1840 la società tipografica napoletana Tramater diede alle stampe il Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca; l’opera aveva però un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava particolare attenzione alle voce tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri.

L’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali: i vocabolari del passato avevano fatto riferimento a cane come “animal noto” o il cavolo come “erba nota”; nel Tramater, invece, la definizione zoologica e botanica poggia sulla precisa classificazione scientifica, per cui il cane è la “specie di mammifero domestico…che ha sei denti incisori…”.

Nessun vocabolario dell’800 si avvicina nemmeno lontanamente alla qualità del Dizionario di Tommaseo (poi portato a termine da Bellini). Tommaseo si preoccupò di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie. Tra queste, comunismo e positivismo, entrambe accompagnate da una definizione umorale e per nulla oggettiva.

Uno dei punti di forza del nuovo vocabolario era, oltre alla mole e all’abbondanza dei termini, la strutturazione delle voci. Il criterio seguito non consisteva nel privilegiare il significato più antico o etimologico, ma nel dichiarare “l’ordine delle idee”, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune ed universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi di una parola, individuati da numeri progressivi, e privilegiando sostanzialmente l’uso moderno.

Della soggettività di Tommaseo, è rimasta celebre la faziosità contro Leopardi, dimostrata nel compilare la voce “procombere”: “l’adopra un verseggiatore moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte…Non avendo egli dato saggio di sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che retorica pedanteria”.

Si realizzò anche un vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al fiorentinismo dell’uso vivo. Nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla del 1868, Manzoni aveva guardato al Dictionnaire de l’Acadèmie française: erano stati aboliti gli esempi di autore. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori, il Giorgini-Broglio presentava una serie di frasi anonime, testimonianza dell’uso generale. Allo stesso tempo, venivano eliminate le voci arcaiche. Secondo Manzoni, si trattava di scindere le due funzioni che si erano confuse nei vocabolari italiani, i quali avevano voluto allo stesso tempo mostrare l’uso vivente, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Questa seconda finalità doveva essere invece rinviata a lessici appositi, di tipo esclusivamente storico, mentre la funzione primaria doveva essere quella di indicare l’uso vivo di Firenze.

Il secondo obiettivo proposto da Manzoni nella Relazione del 1868 stava nella realizzazione di una serie di vocabolari dialettali i quali suggerissero l’esatto equivalente fiorentino.

L’800 fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. L’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato non più italiano corrotto, ma una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la sua storia parallela a quella della lingua italiana. Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme letterarie della cultura orale, canti e racconti.

Mentre si realizzava l’unità d’Italia, lo studio dei dialetti serviva proprio per scoprire le tradizioni italiane.

4. GLI EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA

In comune, tra i vari stati italiani, c’era soltanto un modello di italiano letterario, elaborato dalle élite. Mancava quasi completamente una lingua invece comune della conversazione.

Il numero degli italofoni, era allora incredibilmente basso. De Mauro, al momento della fondazione del Regno d’Italia, sostiene che quasi l’80% degli abitanti era analfabeta ufficialmente. Non tutto il restante 20% però sapeva utilizzare l’italiano.

Alfabeta dunque non significava avere un reale possesso della lingua scritta. De Mauro ha supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola superiore postelementare, la quale nel 1862-63 toccava solamente l’8,9 per mille della popolazione tra gli 11 e i 18 anni, ovvero 160000 individui. A questi, si aggiungano i 40000 toscani e 70000 romani che hanno un possesso naturale della lingua. Essi infatti, se hanno conseguito anche solo un’istruzione elementare, hanno un possesso accettabile della lingua.

In totale sarebbero dunque 600000 gli italiani capaci a parlare italiano su una popolazione totale di 25 milioni, ovvero il 2,5%.

Castellani ha invece posto il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana, corrispondente almeno a una parte della Marche, del Lazio e dell’Umbria, in cui la natura delle parlate locali è tale da far ritenere che un grado di istruzione anche elementare sia sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano.

Il nocciolo del problema sta nel tipo di rapporto che si ritiene intercorra tra la lingua toscana parlata, i dialetti dell’area mediana e l’italiano. Il nuovo calcolo del Castellani alza la percentuale di parlanti in italiano al 10% della popolazione totale.

Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque gratuita ed obbligatoria grazie all’estensione della legge piemontese Casati del 1859 in tutto il territorio statale. La legge Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo della frequenza, almeno per il primo biennio, punendo gli inadempienti.

Nel 1861, almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Nel 1906, evadeva l’obbligo ancora il 47% dei ragazzi.

Esistevano gravi condizioni di disagio: certi maestri infatti usavano il dialetto per tenere lezione, essendo incapaci di fare di meglio; inoltre nelle scuole superiori si confrontarono posizioni teoriche diverse, con la presenza di insegnanti puristi, manzoniani e classicisti.

Giosuè Carducci diede il suo parere su programma e libri scolastici, progettando un percorso basato su di un sentimento classico della lingua letteraria.

Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica italiana dopo la formazione dello stato unitario, individuate da Tullio De Mauro, possono essere così riassunte:

1) azione unificante della burocrazia e dell’esercito. 2) azione della stampa periodica e quotidiana. 3) effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione, che porta fuori dall’Italia molti analfabeti. 4) l’aggregazione attorno ai poli urbani che significa abbandono dei dialetti rurali.

5. IL RUOLO DELLA TOSCANA E LE TEORIE DI ASCOLI

Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contrastate da Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della linguistica e della dialettologia italiana.

La polemica prendeva le mosse dal titolo del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, titolo in cui era stato usato l’aggettivo novo alla maniere fiorentina moderna, con il monottongamento in –ò- di –uo-, contro al tipo nuovo, ormai largamente accolto nella lingua letteraria comune. In sostanza Ascoli escludeva che si potesse disinvoltamente identificare l’italiano nel fiorentino vivente, e affermava che era inutile quanto dannoso aspirare a un’assoluta unità della lingua.

L’unificazione linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un intervento pilotato, doveva essere una conquista reale, che sarebbe avvenuta solo quando lo scambio culturale nella società italiana si fosse fatto fitto.

Ascoli, inoltre, contestava che si potesse applicare in Italia il modello centralistico francese, a cui si era ispirato Manzoni. L’Italia andava considerata insomma un paese policentrico, in cui Ascoli individuava la mancanza di quadri intermedi che si ponessero a mezza strada tra i pochissimi dotti e l’ignoranza delle masse, e la malattia era la retorica.

Ascoli è severo con la Toscana. La giudica una terra fertile di analfabeti, con una cultura stagnate: perciò meglio guardare a Roma.

Castellani invece ha difeso il ruolo e la funzione di questa regione, insistendo sull’importanza del manzonismo.

6. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO

Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore. Proliferavano infatti periodici che raggiungevano un pubblico nuovo. Ma inizialmente non era stato facile, e il giornale primo-ottocentesco infatti restava ancora un prodotto di èlite.

Nella seconda metà del secolo, in ogni modo, il giornalismo diventò fenomeno di massa. Ancora in questo periodo, nel giornale di alternavano voci culte e libresche a voci popolari, anche se vengono in genere evitati i dialettismi più vistosi. Alcune voci regionali si diffondono attraverso questo canale, come camorra e picciotto.

La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodare breve, e spesso alla frase nominale. Il giornale è oggi linguisticamente interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca infatti non è la stessa di quella politica o economica.

Compare anche la pubblicità sotto forma di annunzi che spesso contenevano termini nuovi o parole regionali.

Michele Ponza, insegnante e lessicografo piemontese, nel 1830 se la prendeva con un foglio periodico in cui trovava regionalismi come grotta per cantina e pristinaio per panettiere. Il direttore si difese dicendo: “Non so come siami lasciata cadere dalla penna questa marcia voce di pristinaio, voce lombarda”.

7. LA PROSA LETTERARIA

Nell’800, si fonda la moderna letteratura narrativa. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del genere romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando decisamente lo scritto al parlato.

Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nei Promessi Sposi, che uscì in prima edizione del 1825-27 già indirizzata verso la lingua media e comune. Seguì una lunga e meditata revisione, la cosiddetta risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della lingua del suo capolavoro, che egli voleva perfettamente adeguato al fiorentino delle persone colte.

Possiamo così sintetizzare i criteri della prassi correttoria manzoniana:

1) espunzione abbastanza ampia della forme lombardo-milanesi, come l’eliminazione del termine marrone per sproposito: ho fatto un marrone diventa ho sbagliato.

2) Eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte, preziosistiche, auliche, affettate, arcaicizzanti, o letterarie rare: lunghesso la parete per strisciando il muro e l’affisò per lo guardò, per esempio.

3) Assunzione di forme tipicamente fiorentine come i monottongamenti di –uo-: avremo quindi spagnuolo per spagnolo; poi l’uso di lei e lui come soggetti al posto dei letterari ella ed egli. E ancora citeremo pranzo per desinare.

4) Eliminazione di doppioni di forme e di voci, avendo quindi eguaglianza per uguaglianza e quistione per questione.

La risciacquatura dei panni in Arno determinò in linea di massima l’adozione di uno stile più naturale, più sciolto, slegato dalla tradizione aulica allora imperante.

Ecco alcuni esempi da due edizioni dei Promessi Sposi:

ed. 1827: Renzo rimase lì gramo e scontento, a pensar d’altro albergo. […] La casa era fuori del villaggio, a pochissima distanza. Quivi egli deliberò di rivolgersi a chiedere ospizio. Ed. 1840: Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. […] La casa era a pochi passi fuori dal paese. Pensò di andar lì.

Si noti in particolare la frase finale, in cui il pesante costrutto indotto da quivi, costituito da ben tre verbi di fila, viene sostituito dall’agilissimo “Pensò d’andar lì”; poi vi è l’eliminazione del troppo letterario gramo a favore di triste. A livello fonomorfologico invece si nota giovinotto al posto di giovanotto.

Modelli di prosa toscana che stanno a margine rispetto al Manzoni sono quelli di Fucini e di Collodi. Quest’ultimo, in particolare, ebbe una grande influenza sul pubblico giovanile, con il celeberrimo Le avventure di Pinocchio (1883). Di fatto, lo stile di quel libro collaborò con il manzonismo a diffondere la lingua toscana in tutta Italia.

Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori del “multilinguismo” come Carlo Dossi, Giovanni Faldella e Vittorio Imbriani. Usavano forme linguistiche attinte a fonti diverse: toscano arcaico, toscano moderno, linguaggio comune e dialetto si trovano a coesistere in una miscela composita.

Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei Malavoglia. Verga non abusa del dialetto e non lo usa come macchia locale.

Il procedimento sta nell’adattare la lingua italiana a plausibile strumento di comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare, senza peraltro regredire ad un dialetto usato in maniera integrale. Lo scrittore adotta dunque alcune parole siciliane note in tutt’Italia, e poi ricorre ad innesti fraseologici, come quando usa l’espressione “pagare col violino”, ovvero a rate.

Tratti popolari sono anche i soprannomi dei personaggi, l’uso del che polivalente, la ridondanza pronominale, il ci attualizzante (es: averci), gli per loro. Questi tratti popolari servono a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni (“ci levano la camicia di dosso, ci levano!”).

Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, in particolare per il discorso indiretto libero (o “discorso rivissuto”): esso è un miscuglio del discorso diretto e del discorso indiretto. Non vengono aperte le virgolette, ma nella voce dello scrittore affiorano modi e forme che sono propri del discorso diretto: “Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!”.

Abbiamo insomma un’oscillazione tra l’autore e il suo personaggio.

8. LA POESIA

Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizza, almeno all’inizio del secolo, per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza con l’affermarsi del Neoclassicismo, in Vincenzo Monti, ma anche in Foscolo. Il lessico viene selezionato in modo da ascriversi alla serie delle parole nobili, cultismi (bronchi per rami e avelli per tombe) e latinismi (cure per affanni), diverse da quelle proprie della quotidianità.

Nel caso di parole che non erano diverse in prosa e in poesia, per nobilitarle nella forma, si ricorreva con facilità alla sincope (spirto per spirito, pria per prima) o al troncamento: nei Sepolcri troviamo mar e non mare, per esempio.

Un maestro di retorica dell’inizio dell’800, diceva così: “Poesia è favella degli iddii, e tanto migliore è, quanto più dai parlari del profano vulgo si sprolunga. Dalle idee basse, che rammentano cose troppo a noi vicine abborri, figliuol mio. Ai nomi propri sostituisci una bella circonlocuzione; non dirai amore, ma il bendato arciero, etc.”.

Anche Leopardi dichiara che gli arcaismi si confanno alla poesia. Il suo linguaggio poetico si riallaccia alla tradizione petrarchesca e tassiana; ma attraverso Tasso, Leopardi acquisisce anche il principio del carattere vago del linguaggio poetico, parole che evocano e suggeriscono qualche cosa di indefinito, e quindi di poetico.

Il linguaggio poetico dell’800 ha difficoltà ad accettare vistose novità formali. Lo stesso Manzoni, come poeta si attenne sostanzialmente alla forma tradizionale. Il tono, comunque, è sempre alto, anzi sublime.

Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, urtarono proprio contro questo ostacolo. I poeti classicisti, quando avevano avuto la necessità di menzionare oggetti comuni, avevano fatto ricorso alla perifrasi: Gian Luigi Beccaria ricorda le “rauche di stagno abitatrici (rane) del Monti.

L’800 fu un secolo in cui ebbe eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in dialetto. Il Porta milanese e il romano Belli (introdusse fregarsene, cazzata e fesso nella lingua nazionale) rappresentarono i più alti esponenti di questo tipo di letteratura.

Il classicista Pietro Giordani, nel 1816, afferma che l’uso dei dialetti era nocivo alla nazione, che i dialetti erano “moneta di rame” da spendere con gente rozza, o con i bambini, nelle circostanze banali della vita comune. Giordani riteneva che la poesia dialettale fosse da collocare su di un piano basso.

Bisogna prendere atto che romantici e classicisti, sul tema della letteratura in dialetto, partivano da presupposti completamente diversi. I romantici si ponevano come difensori del dialetto, mentre i classicisti diffidavano di ogni discesa verso il livello basso della comunicazione e guardavano alla tradizione letteraria nazionale nelle sue forme nobili.

Tornando al Porta, egli entrò direttamente nella polemica contro Giordani, scrivendo una serie di dodici sonetti satirici.


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