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CAPITOLO SETTIMO – IL SETTECENTO



1. L’ITALIANO E IL FRANCESE NEL QUADRO EUROPEO

Le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale, all’inizio del ‘700, erano poche. Lo spagnolo era in fase calante, il portoghese non ha ormai alcun rilievo, le lingue slave non erano né conosciute né apprezzate, mentre tedesco ed inglese avevano una posizione marginale.

La cultura inglese si diffuse in genere all’inizio dell’800 attraverso le traduzioni francesi. Quanto al tedesco, la sua stagione non era ancora venuta: su di esso correvano giudizi piuttosto negativi. Non solo un intellettuale come Leibniz aveva lamentato il grave ritardo di questa lingua dal punto di vista del vocabolario intellettuale e della capacità di vincolare il pensiero filosofico e scientifico, ma le testimonianze mostrano che del tedesco si poteva fare benissimo a meno anche viaggiando e soggiornando nei paesi di lingua germanica. Voltaire, nel 1750, scrive da Potsdam dicendo di aver l’impressione di essere in Francia, e osserva che lì si parla francese ovunque.

Solo con il Romanticismo, all’inizio del secolo XIX, il tedesco ottenne un riconoscimento generale e la cultura tedesca si organizzò utilizzando finalmente la propria lingua nazionale. Nel ‘700 però prevaleva il francese.

La lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori stranieri nei territori di lingua tedesca era il francese, ma anche l’italiano aveva una posizione di prestigio come lingua di conversazione elegante, soprattutto a Vienna, dove Magalotti assicura che non occorreva imparare il tedesco, perché ogni galantuomo conosceva l’italiano; era dunque lingua di corte a Vienna, e anche a Parigi era abbastanza noto, come lingua da salotto e per le dame.

Un italiano colto del ‘700 che non voglia sfigurare nel bel mondo deve parlare un po’ di francese. Era insomma pacifico che il francese aveva assunto una posizione che lo rendeva in qualche modo erede dell’antico universalismo latino. Scrivere in francese significava non solo essere alla moda, ma anche essere intesi dappertutto senza bisogno di traduzione, vantaggio non di poco conto.

Un’opera fondamentale come l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert ebbe due ristampe in Italia, a Lucca e a Livorno, coronate da uguale successo di vendita: entrambe queste ristampe furono in francese.

Nel 1784 l’Accademia di Berlino premiò un saggio di Rivarol intitolato significativamente De l’universalitè de la langue française. Rivarol pretendeva di attribuire il successo internazionale del francese non solo a cause storiche contingenti, ma a una ragione più assoluta e profonda, cioè a una virtù strutturale connaturata a questa lingua, lingua della chiarezza, della logica, della comunicazione razionale, contrapposta ad esempio all’italiano, lingua caratterizzata dalle inversioni sintattiche.

L’ordine naturale degli elementi della frase veniva identificato nella sequenza “soggetto-verbo-complemento”, caratteristica appunto della lineare sintassi francese.

L’italiano, per contro, era ed è caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del periodo: questo veniva reputato da alcuni un difetto strutturale.

2. CESAROTTI FILOSOFO DEL LINGUAGGIO

Dopo la pubblicazione della quarta Crusca (1729-1738), corretta ed ampliata, ma pur sempre incentrata sul canone selettivo toscano, si manifestarono reazioni decisamente polemiche, di stampo illuministico, nei confronti dell’autoritarismo arcaizzante radicato nella tradizione letteraria italiana.

La Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca scritta da Alessandro Verri, è un efficace pamphlet, in cui si denuncia lo spazio eccessivo che le questioni retoriche e formali (le parole) hanno avuto nella cultura italiana, a tutto svantaggio delle cose, cioè a danno del concreto progresso. Ne consegue una totale svalutazione del dibattito linguistico.

Il radicalismo del pamphlet di Verri ci aiuta a capire meglio il senso della rinunzia alla lingua italiana, proposta da Denina ai piemontesi durante l’età napoleonica.

Melchiorre Cesarotti scrive il Saggio sulla filosofia delle lingue, trattato con un impianto nitido, che si apre con una serie di enunciazioni teoriche così sintetizzabili:

1) tutte le lingue nascono e derivano; all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di barbarie non ha senso se lo si vuole utilizzare nel raffronto tre le lingue, perché tutte servono ugualmente bene all’uso della nazione che le parla.

2) Nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari.

3) le lingue nascono da una combinazione casuale, non da un progetto razionale.

4) Nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito o dal progetto di un’autorità.

5) Nessuna lingua è perfetta ma tutte possono migliorare.

6) Nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezze.

7) Nessuna lingua è inalterabile.

8) Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione.

Stabiliti tali principi, Cesarotti affronta il problema della distinzione tra lingua orale e lingua scritta; quest’ultima ha una superiore dignità, in quanto momento di riflessione, e in quanto strumento con il quale operano i dotti.

La lingua scritta non dipende dal popolo, ma nemmeno dagli scrittori approvati; non può essere fissata nei modelli di un certo secolo, e non dipende dal “tribunal dei grammatici”.

Cesarotti indica la strada per una normativa illuminata, da contrapporre a quella troppo rigida della Crusca. “Il consenso generale è l’autore e ‘l legislator delle lingue”. Ma quando c’è discordanza nell’uso, allora non resta che seguire la “miglior ragion sufficiente”, la quale non coincide con la maggioranza degli esempi attestati, né con le auctoritates antiche.

Gli scrittori sono invece liberi di introdurre termini nuovi o di ampliare il senso dei vecchi.

I termini nuovi possono essere introdotti per analogia con i termini già esistenti, per derivazione o per composizione. Un’altra possibile fonte di parole possono essere i dialetti italiani.

Cesarotti ammette anche che possano essere adottate parole straniere, ma questa scelta è presentata come una sorta di male necessario. Secondo Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati nell’italiano, possono legittimamente produrre nuovi traslati e derivazioni.

Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idiome e di un popolo (spiegato come effetto di condizionamenti esterni quali il clima, il governo, le condizioni economiche, etc.), era utilizzato dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico, il quale, di per sé, in quanto straniero, doveva appunto ripugnare al “genio nazionale”.

La struttura grammaticale delle lingue (il loro “genio grammaticale”), infatti, è inalterabile: si veda ad esempio la differenza tra una lingua che distingue i casi mediante le desinenze, come il latino, e una che ne è priva.

Il lessico invece dipende dal genio retorico, che riguarda l’espressività della lingua stessa. In questo settore, tutto è alterabile.

La novità del progetto finale del libro, con la proposta di una magistratura della lingua, attraverso una riforma che con equilibrio e moderazione esprimesse quel “consenso pubblico” che sta alla base del pensiero di Cesarotti. Poiché la lingua è della nazione, egli proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua, al posto della Crusca. La sede di questa nuova prestigiosa istituzione linguistica avrebbe dovuto essere ancora Firenze.

La nuova istituzione avrebbe rinnovato i criteri lessicografici, dedicando attenzione al lessico tecnico delle arti, dei mestieri e delle scienze. Il riscontro del lessico mancante nel vocabolario sarebbe stato fatto non solo per via libresca, ma mediante il ricorso a chi esercitava professioni specifiche.

Una schedatura del genere permetteva di arrivare fino alle parole di uso regionale; a questo punto si sarebbe proceduto a una scelta, e questa scelta era compito del Consiglio italico.

Compito finale e supremo del Consiglio era la compilazione di un vocabolario. Il vocabolario avrebbe dovuto essere realizzato in due forme. Ci sarebbe stata una edizione ampia e una ridotta, di uso comune, divulgativa, pratica. Il Consiglio, inoltre, avrebbe dovuto avviare una serie di traduzioni di autori stranieri.

Il Saggio di Cesarotti si chiude dunque con un appello all’attività intellettuale, chiamando Firenze a farsi rinnovata guida culturale d’Italia, con il consenso delle altre regioni. L’appello, però, cadde inascoltato.

3. LE RIFORME SCOLASTICHE E GLI IDEALI DI DIVULGAZIONE

Gli illuministi cominciarono a pensare che anche la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio di cui ogni uomo doveva essere provvisto per assumere un ruolo nella società produttiva.

E’ questo il secolo in cui l’italiano entra per davvero nella scuola, in forma ufficiale. Anche prima potevano esistere scuole in cui si insegnava a leggere e scrivere in volgare, ad esempio presso le parrocchie o presso alcuni ordini religiosi. Nel ‘700, però, sono le organizzazioni statali a darsi da fare, sotto lo stimolo di intellettuali particolarmente sensibili e intelligenti.

Infatti il dibattito sulla necessità di fare giungere ovunque i lumi della cultura diventa assai comune in questo secolo. Moderne sono anche le ribellioni antipedantesche e antiaccademiche a cui si assiste nel corso del secolo.

La situazione delle riforme scolastiche italiane è dunque in realtà diseguale, diversa da stato a stato. Esemplare è quanto accade in Piemonte, dove nel 1729 Vittorio Amedeo II di Savoia emanò provvedimenti per la riforma dell’Università. Un intellettuale di grido come Scipione Maffei, appositamente interpellato, aveva suggerito l’introduzione di un insegnamento di “lettere toscane”.

Il suggerimento di Maffei non fu allora messo in atto. Sempre in Piemonte, nel 1733-34, divenne obbligatorio per la prima volta, nella scuola superiore d’èlite, lo studio dell’italiano, posto tuttavia in una posizione estremamente marginale: la lezione era stabilita solo una volta alla settimana, per di più il sabato. Nel 1734 venne definitivamente istituita a Torino una cattedra universitaria di “eloquenza italiana e greco”.

A Modena nel 1772, si prescriveva per i primi anni di corso l’uso di libri esclusivamente italiani e non latini. A Parma la costituzione degli studi emanata nel 1768 prevedeva per le classi infime l’insegnamento del solo italiano. A Napoli fu elaborato un progetto avanzato, il piano di Genovesi del 1767, che già nel 1754 aveva deciso di tenere le sue lezioni accademiche in volgare.

Alcune voci si levarono nel ‘700 contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli. Si insisteva sul fatto che ai giovani delle classi medie e popolari serviva una cultura maggiormente legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche.

Tra il 1786 e il 1788 il padre Soave, un somasco nato a Lugano, pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero grande fortuna. Dalla riforma austriaca nacque anche l’idea di una scuola comunale con il compito preciso di insegnare a leggere e scrivere. Questa scuola fu istituita a partire dall’800, negli stati dell’Italia settentrionale.

4. LA LINGUA DI CONVERSAZIONE E LE SCRITTURE POPOLARI

L’interesse manifestato dai riformatori del ‘700 per l’insegnamento scolastico dell’italiano non produsse, ovviamente, risultati immediati al livello della popolazione di ceto più basso. L’uso della lingua italiana continuò, anche in questo secolo, a essere in sostanza un fatto di èlite.

Lo spazio della comunicazione familiare era sostanzialmente occupato dai dialetti, e quando non bastavano i dialetti, si doveva ricorrere a una lingua che Giuseppe Baretti ha così descritto: “…toscaneggia il suo dialetto alla grossa, viene a formare una lingua arbitraria, tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia…”.

Osserva Foscolo che l’uso di una lingua non dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione, o sarebbe stata considerata una “affettazione di letteratura”. Manzoni, da parte sua, descrive i caratteri del cosiddetto “parlar finito”, la lingua ritenuta elegante, che consisteva appunto nell’usare le parole che si supponevano italiane, e nell’aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti per consonante. La lingua italiana, dunque, così come aveva affermato Baretti, si prestava poco alla conversazione “naturale”, perché era scritta ma poco parlata, e comunque parlata come qualcosa di artificiale.

Questa situazione era tale da far nascere il vero e proprio topos secondo il quale la lingua italiana non poteva essere classificata appieno tra le lingue vive o addirittura era da classificare fra le morte.

Non mancano interessanti eccezioni alla marginalità culturale del dialetto: nei tribunali veneti, ad esempio, le arringhe si fanno in veneto illustre. Ecco un’arringa dell’avvocato veneto Casalboni: “Gran apparato de dottrine…el mio reverito avversario…risponderò col mio veneto stil, il nativo idioma…”.

Si noterà il passaggio continuo dal codice dialettale alla lingua, fino alla compenetrazione, con articoli e preposizioni venete (el, de), sonorizzazioni settentrionali (segondo per secondo).

5. IL LINGUAGGIO TEATRALE E IL MELODRAMMA

Il successo dell’opera italiana nel ‘700 è molto grande, anche all’estero, e questo successo contribuì in maniera determinante a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, della contabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al francese, la lingua della razionalità e della chiarezza. Laddove era necessario usare tecnicismi di qualunque tipo, però, l’italiano entrava in crisi.

Quanto ai paesi di lingua tedesca, l’italiano, già ampiamente diffuso a Vienna, a Dresda e a Salisburgo, ebbe un nuovo successo col trionfo dell’opera italiana di Metastasio, a Vienna. Il linguaggio dell’opera influenzò l’italiano imparato da alcuni stranieri, come Voltaire, che scrive lettere con un lessico melodrammatico e aulico. Anche Mozart conosceva l’italiano, e lo adoperava in forme curiose e vivaci.

Benché si ritrovino nell’opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo dire che egli ne fosse assillato. Goldoni scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano, e infine scrisse anche in francese. Il suo francese è stato giudicato una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace ed adatta alla scena.

Goldoni, nella presentazione della raccolta delle sue opere, toccò comunque la questione: “Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi, e voci lombarde, giacchè ad intelligenza anche della plebe più bassa, che vi concorre (al teatro)…”.

L’uso del dialetto, che in scena non costituisce un problema, richiede qualche temperamento in occasione della trasposizione scritta.

Sparisce il tradizionale bolognese del “dottore avvocato”; il dialetto veneziano resta, ma corredato di una serie di chiose per fare intendere anche ai non veneti; vengono così spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al posto delle sedie.

Alcune caratteristiche dell’italiano di Goldoni sono quelle di essere un “fantasma scenico” (Folena) che ha spesso la vivacità del parlato, ma si alimenta piuttosto dall’uso scritto non letterario, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi lombardi e francesismi. Dialetto e lingua, comunque, non vanno visti necessariamente in opposizione. In certi casi si alternano e si confondono in una stessa battuta.

L’italiano teatrale di Goldoni è vero, estraneo a preoccupazioni di purezza: lingua non elegante, dunque, ma viva, lingua innovativa che va contro le tendenze tradizionali della prosa accademica italiana. In Goldoni domina una sintassi di tipo paratattico, giustappositivo, asindetico, in cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti sempre ai margini della norma grammaticale, come le ridondanze pronominali (“Corallina mia, a me mi volete bene?”) o come la cosiddetta dislocazione a sinistra con anticipazione del pronome (“La ricchezza la stimo e non la stimo”).

6. IL LINGUAGGIO POETICO

Risale al 1690 la fondazione, a Roma, dell’Arcadia, una palestra poetica di dimensioni gigantesche. Essa ebbe come strumento una lingua sostanzialmente tradizionale, ispirata al modello di Petrarca, e intesa a liberarsi degli eccessi della poesia barocca, allontanandosi dal gusto per l’anormale e per lo straordinario che aveva caratterizzato il secentismo.

Vi è nel linguaggio della poesia del ‘700 una sostanziale adesione al pssato, un impiego della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con relativo largo uso di latinismi ed arcaismi. Sono gli effetti di una tendenza alla nobilitazione come la proclisi dell’imperativo, nelle forme t’arresta, t’accheta, etc, dell’enclisi sgridonne, negommi, etc.

Stessa funzione hanno gli iperbati come “la rauca di Triton buccina tace”.

Metastasio fa uso di troncamenti (arrossir, parlar…). I troncamenti, come gli abbondanti arcaismi e latinismi, hanno lo scopo di distinguere la poesia della prosa, di salvare cioè i versi dal rischio di scivolamento nel prosastico.

Tra due termini, si tende dunque a scegliere quello più raro e letterario, ancorché banale: duolo piuttosto che dolore, per esempio. La poesia del ‘700 affronta temi nuovi temi: basti pensare alla poesia didascalica (Mascheroni) e a quella morale (Parini). Ciò significa che non si rifugge dall’attualità, dai temi moderni, e purtuttavia lo si fa ricorrendo a una sotanziale nobilitazione verbale degli oggetti comuni.

7. LA PROSA LETTERARIA

Includeremo nella categoria della prosa letteraria la prosa saggistica del ‘700. Molti scriventi invocano il confronto salutare con la tradizione francese e inglese. Alessandro Verri dichiara la propria ammirazione per l’ordine della scrittura francese e per la brevità della scrittura inglese. Lamenta, viceversa, la “penosa trasposizione” dello stile italiano, la vanità dei vocaboli selezionati in base a criteri retorico-formali.

Alessandro Verri non andò immune da scrupoli grammaticali, testimoniati da postille autografe apposte ai manoscritti delle Notti romane. Le Notti romane sono un esempio di prosa la quale si propone quale nobile modello neoclassico, ispirato all’antico, con latinismi e con una generale sostenutezza oratoria.

Il nobile decoro di cui fa uso A. Verri nelle Notti romane non presenta alcun cedimento al fiorentinismo cruscante.

Giambattista Vico da giovane aveva aderito al “capuismo”, cioè al movimento arcaizzante del filosofo e scienziato napoletano Leonardo Di Capua, il quale imitava fedelmente i modelli toscani antichi. Nella Scienza nuova di Vico si riconoscono arcaismi e latinismi, in una sintassi che spesso è ben diversa dall’armonica struttura classicistica.

Si possono trovare nella prosa di Vico vere e proprie cascate di subordinare, mentre alcune dignità hanno la forma di pensieri brevi e lapidari.

Vittorio Alfieri parlò male della lingua francese, inaugurando il soggiorno a Firenze come pratica di lingua viva. Nelle tragedie di Alfieri, lo stile dell’autore si caratterizza per un volontario allentamento dalla normalità ordinaria e dal cantabile, allontanamento ottenuto attraverso ogni sorta di artificio retorico, in particolare attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi.

La lettura briosa Vita alferiana è un’avventura linguistica, perché descrive il cammino verso la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese.


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